Di Ezio Foresti*
Il ritorno a scuola spesso rievoca ricordi lontani, quando il mondo dell’istruzione obbligatoria era molto diverso da quello di adesso. Si pensi solo al numero degli alunni. Oggi il limite di studenti in una classe è di venticinque, solo un paio di generazioni fa non era insolito che l’aula contasse quaranta bambini, e a volte anche di più.
Questione di natalità, e delle cosiddette famiglie numerose, che allora abbondavano in ogni paese. Il numero dei discenti non influiva sulla disciplina, anzi. Spesso non si sentiva volare una mosca perché maestri, maestre e suore mantenevano un’attenzione e un silenzio encomiabili, a volte con metodi non proprio ortodossi.
La varietà, la quantità e il costo dei libri non erano certo paragonabili a quelli odierni. Bastavano il sussidiario e il libro di lettura, accompagnato in prima da l l’abbecedario. Negli anni del boom capitava ancora che i piccoli si cimentassero con la difficile arte della scrittura con il pennino. E che alcuni, vetusti banchi di legno massiccio presentassero il buco per il calamaio.
Non si contano le volte in cui il contenuto si rovesciava sui fogli candidi, sullo scossàl o, peggio ancora, sull’immacolato colèt che le nostre mamme stiravano e inamidavano con cura maniacale. Un discorso a parte meritano le cartelle. Il dibattito degli ultimi anni ha portato le aziende a realizzare strumenti sempre più leggeri e facili da trasportare, con fogge che variano dallo zainetto al trolley e grafiche che passano in rassegna tutto l’universo degli eroi televisivi o del web per l’infanzia.
Un tempo invece si privilegiavano due elementi, la robustezza e la durata. La prima garantiva la seconda, che a sua volta consentiva di tramandare la cartella dal figlio maggiore al minore, e in casi estremi anche ai nipoti. Un mondo sicuramente più povero, e decisamente più semplice. Che poi ci sembri anche migliore, è forse un’esagerazione dovuta alla lente deformante del ricordo.
*in memoria