Un romanzo pieno di dolore in una Bergamo piccola (e vera)
È un libro di contrasti il nuovo romanzo di Angelo Roma. E, come racconta con pregevole capacità di sintesi il titolo, ovvero I contraccolpi (Mondadori, pag. 213, 17,90 euro), sono contrasti emotivi, sterzate di emozioni che si susseguono in un impilarsi di parole e pensieri che abbracciano, narrativamente parlando, un arco temporale lungo anni. Lungo tanto quanto la vita di Marcello, per la precisione.
Fine Anni Quaranta, Bergamo. La nostra città vive i primi segnali del risveglio post bellico. Camillo Barocchi, grazie alla sua farmacia di piazza Pontida e a un’avidità priva di scrupoli, regala alla moglie Lia, professoressa al Sarpi, e al figlio Marcello una vita agiata, più che borghese. E per quest’ultimo la strada sembra segnata: un’istruzione rigida, una famiglia anaffettiva, un futuro che definire agiato è poco e un lavoro certo. Fino a quando Marcello non scopre il teatro, per il quale ha un talento naturale e un amore viscerale, così forte da portarlo a rompere ogni gabbia costruita attorno a lui dai genitori per poter così spiccare il volo sulle ali della propria indomita passione.
In una trama per certi versi semplice, la scintilla sono le pieghe psicologiche dei personaggi, che Angelo Roma narra con abilità. La sua scrittura, infatti, tiene perfettamente il tempo dei pensieri del protagonista, seguendone l’illusoria serenità e cavalcandone le nevrosi. Le coltellate narrative giungono improvvise e inattese e le ferite si rimarginano lasciando cicatrici che il lettore non può dimenticare, proprio come quelle che Marcello nasconde nel suo cuore e che, fino all’ultima pagina del romanzo, non gli dà pace. Perché ogni accadimento delle nostre vite ha, vicino o lontano nel tempo, dei contraccolpi (per l’appunto) che prima o poi dovranno essere affrontati.
Nato in Puglia ma cresciuto a Bergamo, Roma ha deciso di ambientare buona parte della sua ultima opera proprio nella sua città. Raccontandone senza filtri, con schietta sincerità, i lati più abietti e meno edificanti, tipici di ogni piccola città medio-borghese. Apparentemente, una mancanza di rispetto. In realtà, invece, un atto d’amore. Perché non c’è nessun atto d’amore più grande che raccontare con cruda sincerità un luogo, le sue persone, le sue storie. E ammettere che, anche nelle sue bassezze, non si può fare a meno di chiamarlo casa.