Da don Bepo ai giorni nostri

Ci sono almeno tre buone ragioni per fare festa al Patronato

Ci sono almeno tre buone ragioni per fare festa al Patronato
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Chi non lo conosce farebbe bene ad andare a dargli un’occhiata, magari verso le sette di sera, nella casa di via Gavazzeni, quando centinaia di persone di ogni etnia e colore si mettono in fila per la cena: a un euro, ma se uno non ce l’ha mangia lo stesso. Oppure potrebbe andare al Posto Caldo, alla stazione dei pullman, dove c’è un’altra mensa gratuita. Oppure in diversi altri luoghi della provincia o magari addirittura dall’altra parte del mondo, in Bolivia.

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Da ieri, venerdì 21, a domenica 23 il Patronato San Vincenzo festeggia i suoi primi novant’anni. Definirlo non è facile. Metà scuola e metà ospedale da campo. Nelle diverse case in genere abitano, studiano, vivono quelli che fanno più fatica a stare al passo col mondo d’oggi o quelli che nessuno vuole: minori disadattati, mariti che dopo la separazione hanno perso tutto, giocatori d’azzardo finiti sul lastrico, disoccupati che non sono più riusciti a inserirsi nel mondo del lavoro e immigrati, centinaia di immigrati. Ogni santo giorno qualcuno bussa alla porta chiedendo almeno una branda. Il problema è che poi, non sapendo più dove andare, questo qualcuno qui ci pianta la tenda. Alcuni numeri per farsi un’idea: gli ospiti italiani, tra Casa del Giovane, Casa Centrale e Sorisole, sono circa duecento; gli stranieri trecento. I minori ospitati a Sorisole sono settanta (molti di loro hanno problemi con la giustizia); centoventi, invece, vivono nella Ciudad del Niño di Cochabamba, in Bolivia. Gli studenti tra Bergamo, Endine e Clusone sono mille e cento, noventocinquanta nel Paese andino. Un universo mandato avanti da dieci preti, volontari e 217 dipendenti, metà dei quali insegnanti.

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Don Roberto Pennati può essere definito l’anima del Patronato di oggi. È cresciuto con don Bepo Vavassori, l’artefice di tutto. Don Roberto da anni è malato, vive in una stanza senza poter uscire. Questo gli consente di conoscere e osservare con maggiore profondità ciò che succede e di indicare la rotta. «Il Patronato - dice - è prima di tutto un luogo di ascolto dei poveri. Ascolto di chi ha bisogno. E subito dopo è la ricerca, “l’invenzione” delle risposte a quei bisogni, risposte che cambiano a seconda del tempo: quelle di cinquant’anni fa non sono quelle di oggi. Le cose cambiano e bisogna saper cambiare, questa deve essere una caratteristica del Patronato». «Oggi - continua don Roberto - il Patronato risponde soprattutto a giovani e poveri. I giovani sono gli studenti, bergamaschi e stranieri, che trovano ospitalità nelle scuole professionali e non solo. Altri giovani hanno dei problemi con la giustizia: per loro bisogna trovare delle risposte che li aiutino a riprendere la strada». Tutto questo nella Bergamasca e anche in Bolivia. «Quante cose ci sono da cambiare in Bolivia - aggiunge don Pennati -! Ci sono tanti problemi: con il governo, economici e così via. Il Patronato allora deve cercare di essere sempre nuovo. Deve essere giovane lui per potersi aprire alle richieste e alle esigenze di tutti questi ragazzi».

Giovani e poveri, ma poi il Patronato è anche tante altre cose. «Recentemente il vescovo ha detto che è una delle fraternità sacerdotali, un’idea bellissima che però bisogna incarnare. Noi ci rifacciamo sempre a don Bepo, vivendo oggi l’attenzione, il rispetto, la carità, l’aiuto reciproco. Prima di tutto...

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo alle pagine 8 e 9 di BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 27 settembre. In versione digitale, qui.

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