Si parte dal dolce

Metti un piatto al ristorante Collina Un caso raro di cucina totale

Metti un piatto al ristorante Collina Un caso raro di cucina totale
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Raccontare un ristorante partendo da un dessert non solo si può fare, ma quasi diventa un obbligo, in questo caso. Non capita spesso infatti di incontrare una pasticceria così elegante e ben pensata da ribaltare il naturale andamento del racconto. E allora parliamo di Agrumeto (in copertina): più che come un dessert vero e proprio, lo stesso chef Mario Cornali ci invita a guardarlo come fosse un’installazione o un’esperienza multi-sensoriale. Niente piatto di portata: il dolce (che ha come tema l’agrume in tutte le sue declinazioni) si costruisce davanti all’ospite, sul tavolo, pezzo dopo pezzo, elemento dopo elemento: profumi, sapori, colori e consistenze. Fino a uno spruzzo di acqua d’agrume nebulizzata nell’aria. Come dire: Grant Achatz (re della cucina molecolare) ma con tocco di iperrealismo sensoriale.

 

 

Ma fermarsi qui sarebbe un errore. Un’immensa terrazza che guarda verso la pianura in cima alla collina di Almenno San Bartolomeo. Questa la location. Immensa è anche la cucina, colta e intelligente, studiata a lungo per sfuggire dalla dinamica banale e banalizzata di cucina-sala-cliente dal ritmo fordiano. Il punto focale del menù, quello sul quale si è costruita anche una parte della nomea del Ristorante Collina, è il pesce di lago portato in tavola in tante sfaccettature e prove autorali: è il vero centro dell’attenzione, anche se non l’unico. Difficile da trattare, quello di lago è ben altra cosa rispetto a quello di mare, anzitutto per le varietà reperibili, ma anche e soprattutto per sapori molto meno spiccatamente salini e dal carattere più terroso. Ben venga: è così raro trovare un po’ di cucina di pesce che non sia sempre e necessariamente di mare. Ed è così raro trovare un intero menù costruito su questa declinazione. Chi ci riesce, come nel nostro caso, dimostra da una parte di essere capace di tenere le redini dei principi della cucina senza snaturarne gli ingredienti, dall’altra dà prova di un certo innamoramento per gli ingredienti stessi, e lo chef non ne fa di certo segreto: il discorso sulla sua filosofia cade sempre intorno allo stretto rapporto con il fornitore. Un rapporto quasi celebrale, raccontato nei libri e nelle raccolte di aneddoti firmate dello stesso Cornali.

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Va bene la riflessione, dunque, che qui non manca di certo, ma quello che conta, in fondo, è la pancia: come si mangia allora al Collina? Le premesse sono ottime: il risultato? Altrettanto. Difficile scegliere un piatto, molto più pratico seguire, come spesso accade quando il livello della qualità supera una certa soglia, affidarsi al principio sempre valido e universale del fai tu. Piatto dopo piatto l’idea che ne viene fuori è qualcosa di enormemente pensato e ripensato, ma perlopiù pulito da ogni orpello pleonastico e pretenzioso. Il lago comincia con un Dashi, cioè un ripensamento del famoso brodo giapponese ma fatto rimanendo sul territorio, che accoglie le saporite polpette di luccio e il lavarello e tiene insieme alga, verdura di stagione e scorza di limone candito.

 

 

Esemplare è anche la deviazione in Montagna (qui sopra), che è anche il nome del piatto. Ovvero, ci spostiamo dal lago per dedicarci alla selvaggina, a un confrofiletto di cervo, per la precisione. L’esperienza comincia prima della pietanza, con un profumo di fieno e pietra caldi a preparare non solo il palato ma anche la testa per quello che seguirà, e quello che seguirà altro non è che la rappresentazione di una passeggiata in montagna. Dalla malga simboleggiata della crema al fieno fino al bosco sublimato in un balsamico humus di conifere, e infine, il cristallo di grappa che è la vetta di un percorso cominciato a valle.

Il Collina in una frase: un raro esempio di cucina totale.

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