«È il giorno più cupo dell'anno»

I miei Natali chiuso in un carcere e quella stretta di mano col Papa

I miei Natali chiuso in un carcere e quella stretta di mano col Papa
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«Natale in carcere è il momento più duro dell’anno. Nelle celle il clima è cupo, teso. Qualsiasi persona sente forte il desiderio di stare con i suoi, c’è chi ha i bambini, chi una moglie, chi i genitori. I più avviliti sono quelli finiti dentro per reati di poco conto. Chiunque vorrebbe essere coi suoi cari e il carcere te lo impedisce». Attilio ha 28 anni e di Natali dietro le sbarre ne ha passati quattro, in tre penitenziari diversi: San Vittore, Opera e Bergamo. In galera ci è finito per traffico di stupefacenti e rapine in banca, in associazione con altri. Condannato a otto anni, finora ne ha scontati quattro. Ora è in misura di affidamento in prova ai servizi sociali alla comunità don Milani di Sorisole, gestita da don Fausto Resmini. Se non ci saranno intoppi, per lui nel 2020 questo difficile percorso dovrebbe essere concluso. Nel frattempo è libero dalla mattina alla sera. Libero anche di andare a trovare i suoi a Crema, dove è nato e cresciuto prima di andare a studiare a Milano e perdersi. Si siede con gentilezza e sorride: «Metta pure il mio nome vero, non c’è problema».

 

 

Stava dicendo che Natale e il mese di agosto sono i momenti più duri per i detenuti.

«È così, anche perché è come se si fermasse il mondo intero. I magistrati vanno in vacanza e per chi è dentro ogni speranza di uscire svanisce. Ogni persona attende uno spiraglio di luce. Per fortuna ci sono i cappellani e i volontari che in quei giorni ci stanno ancora più vicini».

Che ricordi ha del suo primo Natale in carcere?

«Le notti precedenti non riuscivo a dormire e l’unica consolazione era pensare che magari l’anno dopo l’avrei trascorso a casa. Non erano ancora arrivate le condanne. Poi, anno dopo anno, il Natale è stato sempre più pesante».

Perché?

«La mattina della vigilia, il 24, sono consentiti i colloqui con i familiari. I miei sono sempre venuti. Non ho mai pianto davanti a loro perché non volevo che si abbattessero. Ho pianto dopo, da solo. Non auguro a nessuna mamma di vedere il proprio figlio in carcere, soprattutto in quei giorni».

E la sera del 24 come l’avete trascorsa a San Vittore?

«Come tutte le altre sere: guardando la tivù, giocando a carte o leggendo. Potevamo però stare in piedi fino a tardi e a mezzanotte si aprivano le celle. Ci scambiavamo gli auguri. A Opera, invece, alle dieci di sera, c’è stato uno spettacolo organizzato dai volontari della Scala di Milano. Siamo usciti tutti dalle celle e fra gli attori e i cantanti c’erano anche i nostri compagni che si erano preparati nei due mesi precedenti».

E il giorno di Natale?

«C’è la messa, gli auguri e poi il pranzo tutti insieme. Fra quelli di noi che si conoscono meglio ci si scambia una fetta di panettone col mascarpone preparato coi fornelli nelle celle, che restano aperte fino a sera. Alla messa i miei compagni di cella hanno sempre partecipato tutti».

E a Bergamo?

«A San Vittore e a Opera ero a regime chiuso, con due ore di aria al mattino e due al pomeriggio. A Bergamo le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. Nei giorni che precedono il Natale è sempre venuto il Vescovo, accompagnato dai cappellani, dai magistrati e dal direttore del carcere. L’incontro col vescovo è un momento commovente».

Quale dei tre è il carcere peggiore?

«Come vivibilità oggi il peggiore è Bergamo».

Perché ci sono troppi detenuti?

«Perché ci sono tanti extracomunitari. Loro hanno costumi e abitudini diverse.... Continua

 

Per leggere l’articolo completo, rimandiamo alle pagine 8 e 9 di Bergamopost cartaceo, in edicola fino a giovedì 28. In versione digitale, qui.

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