La mancata zona rossa in Val Seriana: nessuno pagherà per aver deciso di non decidere
Abbiamo ricostruito, passo passo, il tira e molla politico avvenuto tra la fine di febbraio e i primi di marzo. La Procura indaga, ma è sempre più probabile che penalmente non siano riscontrati reati
di Andrea Rossetti
Mercoledì 3 giugno erano tre mesi esatti dalla prima volta che, in documenti ufficiali, si è parlato dell’istituzione di una zona rossa tra Nembro e Alzano. Era il 3 marzo e il Comitato tecnico scientifico (Cts), in una nota diretta al Governo, invitava ad «adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della “zona rossa” al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue». Allora, la Bergamasca contava 372 casi riconosciuti, di cui 58 a Nembro e 26 ad Alzano. Il nostro territorio era, evidentemente, il più colpito dal virus, insieme al Lodigiano, dove però erano già in atto misure altamente restrittive da quasi due settimane.
La scorsa settimana, dopo aver ascoltato prima l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera e poi il governatore Attilio Fontana, la pm di Bergamo Maria Cristina Rota ha dichiarato che l’istituzione della zona rossa era una scelta «di competenza governativa». Una frase che ha riacceso la polemica attorno a una questione burocraticamente ingarbugliata, la cui unica certezza, purtroppo, sono le tantissime vittime, conseguenza anche di una decisione che nessuno ebbe il coraggio di prendere. E il perché resta un mistero.
Che il Governo dovesse decidere e preferì non farlo, è indubbio. Lo dimostrano gli atti. Dopo quella nota del Cts, l’esecutivo chiese un chiarimento agli esperti, i quali rimarcarono la necessità di prendere una decisione quanto prima, dato che la situazione, in Bergamasca così come in tutta la Lombardia, stava peggiorando. Il 5 marzo, un giovedì, il numero uno dell’Istituto superiore di sanità, nonché membro del Cts, Silvio Brusaferro, tornò a premere per l’istituzione di una zona rossa tra Nembro e Alzano, dove il virus era ormai fuori controllo. Nelle ore precedenti, nella bassa Val Seriana erano stati avvistati diversi mezzi dell’Esercito e a Zingonia si erano sistemati tantissimi carabinieri e agenti di polizia (come si può vedere dall'immagine in apertura di articolo e da quella qui sotto). La chiusura, insomma, sembrava imminente.
Ordini dall’alto, però, non ne arrivarono. Il giorno successivo, venerdì 6 marzo, il premier Giuseppe Conte fece un nuovo vertice con Protezione civile e Cts. Fu in quella occasione che, di fatto, rese noto di aver deciso di non istituire una zona rossa in Bergamasca, bensì di attuare misure più restrittive su tutta la Lombardia (così come in altre 14 province italiane). Il decreto fu firmato il giorno successivo e la sera dell’8 marzo venne annunciata la decisione in una conferenza stampa nella quale Conte parlò di «zona rossa in tutta la Lombardia». In realtà, sarebbe stato più corretto parlare di “zona arancione”, dato che all’interno della Regione rimanevano validi gli spostamenti per motivi di lavoro, urgenza e necessità. Insomma, niente di paragonabile agli stringenti provvedimenti presi il 23 febbraio per Codogno e dintorni con un’ordinanza a firma del ministro della Salute Speranza e del governatore Fontana.
Ecco, Fontana. La domanda è lecita: Regione Lombardia poteva fare di più? Doveva fare di più? Del resto, sull’ordinanza che impose la zona rossa nel Lodigiano c’era anche la firma del governatore lombardo. Il quale però, in questi mesi, ha sempre “rimpallato” le accuse, addossando tutte le responsabilità a Roma. Lo stesso ha fatto Gallera, il quale però ha ammesso anche di aver scoperto, con colpevole ritardo, che una legge (per la precisione l’articolo 32 della legge 833 del 1978) avrebbe permesso alla Regione di imporre misure più restrittive. Cosa che il premier aveva sempre detto. Il problema, però, sarebbe stata la gestione della decisione presa. In altre parole, Regione avrebbe potuto prevedere, con un’ordinanza regionale, l’imposizione di una zona rossa in Val Seriana, ma senza il supporto dello Stato non avrebbe poi potuto monitorare dovutamente, con l’apporto delle forze dell’ordine, il rispetto della stessa. È anche vero che se Fontana avesse preso questa decisione, difficilmente lo Stato si sarebbe tirato indietro. Come per il Lodigiano, un accordo si sarebbe trovato.
Le recenti dichiarazioni del magistrato bergamasco Rota, ovviamente, hanno riacceso la polemica: il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia ha prontamente rimarcato che «le Regioni potevano istituire zone rosse»; il ministro Speranza ha ribadito l’esistenza dell’articolo 32 della legge 833 del ’78; gli esponenti della Lega, invece, hanno colto l’occasione per attaccare una volta in più il Governo. Col risultato, quasi certo, che mentre tutti continueranno a accusare “l’altro” di essere il cattivo della storia, nessuno pagherà per aver deciso di non decidere.