Giulia, infermiera di famiglia: «Vi racconto chi siamo e come aiutiamo le persone»
Da metà novembre 39 professionisti lavoreranno sul territorio in appoggio ai medici di base e alle Usca. Parla una professionista che farà parte di questa "squadra": «Facciamo vaccinazioni antinfluenzali, tamponi e visite in casa»
di Maria Teresa Birolini
Era la scorsa primavera, Giulia tornava dal lavoro, lei era in prima linea per salvare quante più donne e uomini fosse possibile. Aveva notato le persiane chiuse di fronte a casa sua e si era informata: le dissero che l’uomo gentile e solo che abitava lì era stato portato al Papa Giovanni, troppo tardi. Non è più tornato a casa. Era quel terribile marzo. Sono passati otto mesi, ma Giulia Merola, di rientro dal turno in ospedale, dove lavora dal 1989 come infermiera, la guarda ancora quella persiana: «Se durante l’emergenza ci fosse stato l’infermiere di famiglia, mi sarei presa cura di lui, da subito, e forse Andrea sarebbe ancora lì, affacciato e sorridente alla sua finestra».
Dal mese di novembre Giulia e altri trentotto professionisti lavoreranno sul territorio: un infermiere ogni 6250 abitanti nelle aree di Bergamo, Valle Imagna e Valle Brembana. «Si tratta di un infermiere direi soprattutto di comunità. Una figura nata proprio durante l’emergenza Covid quando si è capito che il medico di famiglia aveva difficoltà a gestire i pazienti che presentavano sintomi e anche le cosiddette Usca (unità speciali di continuità assistenziale) non erano sufficienti a colmare le richieste. Sono molto orgogliosa di far parte di questo gruppo di colleghi, saremo dei facilitatori, ci muoveremo sei giorni su sette sul territorio per fare vaccinazioni anti-influenzali, tamponi, o solo per andare a trovare le persone che ci vengono segnalate». Già negli anni ’80 l’Organizzazione mondiale della Sanità fa riferimento a questa figura professionale, in Italia invece arriva nel 2015 con la Legge regionale 23 della riforma del sistema sociosanitario Lombardo. Ma diventa realtà il 5 agosto 2020 con una delibera che permette di attivare questo servizio presso l’Asst Papa Giovanni XXIII.
«Saremo di supporto ai medici, entreremo nelle case in base alle esigenze del paziente. Il nostro ruolo è quello di collaborare con tutte le figure sanitarie. L’idea nasce proprio dalla volontà di andare incontro alle persone che temono di essere lasciate da sole in una eventuale seconda ondata Covid. È un percorso che prevede tre fasi: attività correlate alla pandemia Covid, interventi rivolti in modo specifico all'individuo e alla famiglia e azioni rivolte ad alleviare particolari emergenze nella comunità».
Come vedi l’attuale risalita dei contagi?
«La percezione è che qualcosa stia ritornando, non ci dicono moltissimo. Ma siamo più preparati rispetto a prima, abbiamo imparato la gestione dell’ossigenoterapia, dei farmaci, siamo pronti ad affrontare un’eventuale nuova emergenza».
Non hai mai avuto paura?
«Sì, ne ho avuta, come tutti. In queste situazioni ti sale una sorta di adrenalina, ti senti un po' in prima linea, hai la sicurezza che con le tue competenze puoi davvero salvare tante vite umane. In quelle settimane abbiamo fatto qualcosa di straordinario, ma anche le nostre famiglie che hanno portato pazienza; la sera tornavo a casa stravolta, dormivo nella mia stanza, mangiavo da sola».
Quando hai avuto la percezione che eravamo di fronte a un’emergenza?
«Verso la fine di febbraio in qualche reparto si usava la mascherina però ci veniva detto che non era necessario, anche se c’era gente con la polmonite, dicevano che si trattava di una semplice influenza. Un pomeriggio ai primi di marzo, avevamo avuto il caso di un paziente che da giorni aveva febbre, era stato ricoverato per problemi renali. Una email ci comunicò che quel paziente era risultato positivo al Covid-19, per cui era stato spostato dal reparto. Nel pomeriggio dello stesso giorno la nostra capo area ci riunì, la mia unità sarebbe diventata reparto Covid. Lì ho capito che stava succedendo qualcosa di grosso».
Una linea rossa per oltre tre mesi è stata il confine tra la morte e la speranza: da una parte gli intubati, dall’altra chi sperimentava nuove terapie, preparava i farmaci.
«È stata dura, ho visto sforzi da parte dei medici che ogni momento si aggiornavano, cambiavano la terapia, piuttosto che gli infermieri che correvano da un paziente a un altro».
Qual è l’episodio che ricordi più di altri?
«Un giorno intorno a marzo, nel periodo in cui c’erano davvero tanti morti, lavoravo insieme a una collega con cui avevo già collaborato anni prima. Abbiamo iniziato a fare il giro degli ammalati per raccogliere i parametri. C’era un signore per il quale non c’era più nulla da fare. Tutte e due cercavamo di dare la priorità a chi poteva farcela, ma tornavamo spesso da questo signore, gli tenevamo la mano, ci avvicinavamo dicendogli “siamo qui, accanto a te”. Questo paziente poi è morto, quando è successo ho chiamato la mia collega e abbiamo detto una preghiera. Non so se fosse credente, ma in quel momento ci siamo sentite di lasciare tutto, di fermarci e regalargli una preghiera. Questo per dire che non abbiamo mai perso l’umanità. Nei primi periodi dovevi salvare vite, poi nel tempo le cose si sono stabilizzate, seppur in una situazione di emergenza, riuscivi a fare la barba ai ricoverati, sistemarli, tagliargli le unghie, ci siamo presi cura delle persone anche in questo modo».
Quando hai capito che volevi fare l’infermiera?
«Verso i 12-13 anni, volevo fare l’infermiera nei Paesi del terzo mondo, poi le vicende familiari mi hanno tenuto qui».
Le persone come te, a contatto con la morte quotidianamente, come la avvertono, a un certo punto non ti tocca più?
«La morte è una parte della vita. Ho perso i genitori molto presto, sono della generazione di quelli che andavano a visitare il morto, gli davano il bacio, non mi ha mai fatto impressione, anche se ne percepisco la drammaticità. Ho sempre considerato un privilegio accompagnare la persona nel momento della morte, è una condivisione fortissima, penso a ciò che ha potuto fare questa persona nella sua vita, sento di doverla omaggiare. Durante l’emergenza è capitato che i parenti chiamassero per il ritiro degli effetti personali, potevo far finta di nulla invece mi sono sentita di dire: “Ero lì con il suo papà in quel momento e le assicuro che non ha sofferto”».
Quali raccomandazioni vuoi darci?
«Vorrei dire di non sottovalutare nulla, di attenersi alle indicazioni che ci vengono date. Anche i ragazzi, lo so, vedo i miei figli, fanno fatica con lo studio a distanza, sembrano imposizioni, invece dietro a queste raccomandazioni ci sono persone che hanno studiato l’evidenza scientifica di queste cose. Non è un complotto, è un’emergenza sanitaria, dobbiamo fare i conti con questo virus, che significa anche fidarsi di ciò che ci dicono gli altri. Sarà un po’ lunga perché per avere un vaccino serio ci vorrà tempo. Ma queste precauzioni che abbiamo adottato aiutano a ridurre la carica virale del virus e torneremo alla normalità».
Vuoi fare anche un augurio?
«Vorrei si tenesse memoria di questa esperienza. A me ha insegnato a non dare nulla per scontato: nella vita possono accadere cose anche brutte, dolorose ma la sofferenza va affrontata, attraversata. Quando se ne esce si è più forti, più veri. Ricordo che proprio quest’anno, la primavera è stata bellissima, nelle poche serate di riposo, aprivo le finestre e ascoltavo le voci nelle case. Mi prendeva una tale voglia di vivere e dicevo a me stessa: torneremo ad abbracciarci».