La Grande Bellezza di San Pellegrino: anche il Grand Hotel è pronto e attende un gestore
Dopo il Casinò e le Terme, conclusi i lavori al piano terra del monumentale albergo. Riparte la funicolare e anche la Vetta rifiorirà
di Wainer Preda
Quando sali la scalinata e entri nel salone, ti accolgono un gigantesco lampadario in ottone, colonne e stucchi, soffitti affrescati e uno scalone in marmo di Carrara. E allora, sul prezioso parquet, sembra di vedere eleganti signore in fluenti abiti da sera e cappellini in seta, accompagnate da ricchi uomini in smoking, cilindro e baffetti dandy, pronti a una serata danzante.
È sospeso in un altro tempo il Grand Hotel di San Pellegrino. Se non fosse per le auto là fuori e i camion che con il loro andirivieni frenetico dicono che la ristrutturazione del pianterreno è terminata, si direbbe l’inizio del Novecento, la Belle Epoque.
Ci hanno messo cinque anni per riportarlo in vita. Con lavori che sembravano un sfida. Al tempo. Alla bellezza. Alle capacità della tecnica. Al consolidamento e alla ristrutturazione della ciclopica struttura, abbandonata da quarantadue anni, hanno lavorato gli specialisti della Intercantieri Vittadello di Padova, con una sessantina di operai. Poi è stata la volta di elettricisti, parquettisti, restauratori ed esperti nel recupero di questo incredibile capolavoro liberty datato 1905. Ci hanno messo volontà, ingegno, passione.
Perché questo, prima di essere un palazzo, è un capolavoro d’architettura come ce ne sono pochi altri al mondo. E ci vuole rispetto quando gli vai vicino. Ti guarda dalla sua facciata immensa, con quelle serrande che paiono mille occhi, e ti fa sentire piccolo al suo cospetto. E al tempo stesso ti chiede, quasi con disperazione, di tornare a vivere, di tornare a meravigliare come fece il giorno della sua nascita.
L’hanno costruito all’inizio del secolo scorso. Nel 1902 la Società Grandi Alberghi ha affidato il progetto all’architetto milanese Romolo Squadrelli e all’ingegner Luigi Mazzocchi. Doveva essere bello, bellissimo. In stile Art Noveau. Ed enorme, come si usava all’epoca. Tre anni di lavori ed eccolo. Sontuoso, monumentale. Lungo 128 metri, alto 48. Sei piani che diventano sette nel corpo centrale, con tanto di cupola ricavata dalla chiglia di una nave.
Diciottomila metri quadrati di superficie. Centotrenta stanze. Una grandiosa hall, una sala da pranzo da trecento posti, due grandi sale ristoranti, sale lettura, da concerti e da ballo, terrazze, scaloni. Marmo di Carrara ovunque, pareti affrescate, statue, bronzi, ottoni. La prima centralina elettrica dedicata, per far funzionare i lampadari. Quando la regina Margherita di Savoia venne a inaugurarlo nel 1905 non esitò: lo definì «il più bello d’Europa».
Per altri 116 anni, pur con cambi di destinazione d’uso, è rimasto lì. Oltre il fiume. In stato di progressivo abbandono. Collegato, come al respiratore, dal Ponte Umberto I al resto della cittadina brembana. Luoghi inscindibili, che vivono delle reciproche vite. Lui è una presenza immane, silenziosa. Ma la senti, ovunque tu sia, in paese. E quando cammini lungo viale Papa Giovanni, la via centrale, non puoi fare a meno di gettare lo sguardo oltre il Brembo e ammirarlo. Lo fanno i turisti, che restano a bocca aperta. Lo fanno i visitatori con il dito puntato. Lo fanno i residenti. Perché nell’immaginario di tutti, il Grand Hotel è San Pellegrino e San Pellegrino è il Grand Hotel.
Anche se dal 1979 non è più un albergo. Anche se è il fantasma di un’altra epoca. Anche se la vecchia proprietà per pagare solo il rifacimento del tetto ha dovuto svendere tutto il suo interno. Tappeti pregiati, mobili antichi, preziosi, porcellane, specchi, quadri, arredi. Tutto. Ma non è servito.
Dopo anni di desolante abbandono, nel 2008 l’amministrazione comunale ha provato almeno a non farlo crollare. Con un finanziamento pubblico da tre milioni di euro, ha dato il via al primo lotto di lavori: consolidamento e sistemazione di tetto e facciate. Poi nel 2014 il governo Renzi, più o meno consapevolmente, fa un piccolo miracolo. Un finanziamento statale da 18 milioni e 650 mila euro nell’ambito dell'iniziativa “Cantieri in Comune”.
E così prendono il via il restauro completo del piano terra, la demolizione e ricostruzione delle cucine. E poi gli interventi di consolidamento strutturale. Gli uomini della Vittadello rimettono a nuovo le solette, i serramenti esterni. Mettono in sicurezza il sottotetto, uno spazio enorme che da solo vale una visita guidata. Come la vista, sconfinata, che si gode dalle finestre e dai terrazzini di lassù. Poi compiono un altro capolavoro. Rimettono in sesto la cupola. Diciottomila scandole di zinco titanio, inchiodate una sull’altra, allo scheletro di legno sottostante.
Nel salone torna il grande lampadario. Quattro quintali di ottone. Spettacolare. «Abbiamo riportato in vita lampadari che hanno 117 anni - spiega orgoglioso Devid Miselli della Restauratori Associati di Reggio Emilia -. Ci abbiamo messo tre anni di lavoro. Pensi che ogni cavo è invisibile, perché infilato e cablato nei braccetti d’ottone». Quando lo accendi, con quelle lunghe braccia da dea Kalì, è un tripudio di luce. Ma non è l’unico. Lungo tutto il primo piano ci sono altri 45 applique e 12 grandi lampadari restaurati.
Sul pavimento hanno (ri)steso 1300 metri quadrati di parquet. Rovere incrociato, con disegni differenti nella stessa sala e fra le sale, come era un tempo. Gli esperti della AB Parquet, azienda di Serina con show-room a Villa d’Almè, hanno impiegato due mesi per posarlo. «Abbiamo preso i listelli originali, li abbiamo trattati e recuperati - racconta il titolare Angelo Belotti -. La posa è stata complessa, perché in ogni sala c’è un disegno diverso ma continuo rispetto al precedente. Infine abbiamo passato la cera d’api. È stato complicato, ma le confesso: questo lavoro l’avrei fatto a tutti i costi». Mentre lo dice gli brillano gli occhi. Perché ci vuole sentimento per accarezzare il Grand Hotel. Piegati sulle ginocchia. Listello dopo listello, incastro dopo incastro, per oltre un chilometro quadrato.
Il primo passo è fatto. Ma servono altri interventi per evitare che il tempo e l’umidità del fiume provochino ulteriori danni. Regione Lombardia ha messo altri tre milioni per un terzo lotto di lavori. Ora il sindaco Milesi è alla ricerca di un gestore che faccia vivere almeno il pian terreno. L’amministrazione comunale non mette pregiudiziali alla sua destinazione. E si è detta disponibile a parlare anche delle aree esterne. Da più parti sono arrivate manifestazioni d’interesse. E la speranza è che siano la prima chiave di volta, magari per quell’intervento complessivo che rimetta in sesto anche il resto. Ovvero quattro piani di camere affrescate, l’interrato e il magnifico sottotetto.
Per completare il recupero servirebbero una ventina di milioni, forse qualcosa in più. In ogni caso, tanti soldi. Ma stiamo parlando di una sorta di monumento nazionale. Di una bellezza disarmante. E sarebbe un sacrilegio - culturale ed economico - lasciarlo morire di nuovo ora, e stavolta per sempre.