La storia di Gino Frigerio, il santo del quartiere di Loreto che merita di essere ricordato
Nato nel 1943, è morto dopo una vita segnata da gravi sofferenze. Gli amici: «Entravi nella sua camera dove era infermo e ti trasmetteva gioia»
di Luigi de Martino
Domenica scorsa, 19 febbraio, al termine della settimana dedicata ai malati, il parroco di Loreto, don Giovanni Lombarda, alla fine della Messa ha invitato sull’altare Alfredo Gusmini, storico dirigente della Banca Popolare e di Ubi, per fare memoria «di un amico di straordinaria e semplice personalità, che merita di essere conosciuto e fatto conoscere».
Quell’amico si chiamava Gino Frigerio, nato il 9 febbraio 1943 e morto il 18 febbraio 2004 dopo un’esistenza segnata da gravi sofferenze e disabilità. Colpito da emiparesi spastica a sette anni, Gino cominciò a zoppicare e a tredici perse l’uso delle gambe. A 18 divenne cieco dopo un intervento chirurgico; a 23 si ruppe la colonna vertebrale in seguito a una rovinosa caduta con la carrozzina dalla scala di casa, perdendo ogni autonomia; a 55 anni, colpito da un ictus, perse anche l’uso della parola.
«Una vita che è stata una versione aggiornata del Calvario» disse di lui il vecchio parroco, don Mario Peracchi, il giorno del funerale. Eppure, quell’uomo sempre più devastato nel fisico non smise mai di sorridere e di trasmettere serenità. Non solo accettò senza recriminare la sua condizione, ma nel silenzio e con una preghiera incessante offrì le sue sofferenze a Dio «per i giovani e i carcerati».
Alla madre che una volta udì lamentarsi col Signore («Ma che cosa sono andata a fare a Lourdes? Anche la vista hai tolto al mio Gino»), rispose: «Mamma, pensa alla mia serenità: non è una grazia?». Per favorire la conoscenza della vita di Frigerio, negli ultimi mesi è nata l’associazione “Amici di Gino”, di cui Gusmini è presidente.
Dottore, quando e come conobbe Gino Frigerio?
«Il giorno di Natale del 1967. Avevo 23 anni e il curato di allora, don Nino Lazzari, mi invitò ad andare a trovarlo: “Potrai fare del bene, ma ti farà bene”, mi disse. Da allora, per anni, uscendo dal lavoro, mi sono recato a casa sua in via Broseta per stare un po’ insieme. Il papà era un dirigente dell’Orobia e in quella abitazione aveva previsto un ufficio per quel figlio che avrebbe voluto ingegnere; in realtà la stanza di Gino era diventata un luogo di serenità e di pace».
Come andò il primo incontro?
«Avevo timore a incontrare un mio quasi coetaneo in quello stato. Era completamente immobilizzato e cieco: che cosa avrei potuto dirgli? Che cosa avrei potuto fare? Invece non ci fu il minimo imbarazzo. Gino era sorridente e mi mise subito a mio agio».
E in seguito?
«Parlavamo di tutto: del mondo, del mio lavoro, delle fidanzatine. Confidarsi con lui era facile come con nessun altro. E partecipava alle vicende in un modo emozionante. Anche dopo anni ricordava particolari della mia vita che io avevo dimenticato. La tesi di laurea l’ho fatta con lui. Che cosa avrebbe potuto interessargli l’economia? Eppure era curioso di tutto, assisteva divertito alle discussioni politiche tra me, Siro Ferrari e suo cognato. Io gli leggevo i giornali, i romanzi, gli raccontavo le omelie domenicali di Padre Turoldo, che seguivo a Sotto il Monte».