La protesta sotto casa di Gori, la «libertà» e ciò di cui dovremmo avere davvero paura
La foto simbolo del primo lockdown a Bergamo è quella dei camion militari carichi di morti; quella del secondo sarà la gente arrabbiata sotto l'abitazione del primo cittadino. Un declino di cui dovremmo seriamente preoccuparci
di Andrea Rossetti
(foto di Mario Rota)
Bergamo sta vivendo un paradosso: non è stata zona rossa quando avrebbe dovuto esserlo e lo è diventata quando non avrebbe dovuto. Una situazione di cui è colpevole (con dolo ma senza colpa, si spera) la politica, sempre più incapace di decidere e sempre più tristemente abituata a procrastinare. Se, però, il primo lockdown aveva potuto piantare solide radici nel terrore e nella sofferenza dei bergamaschi, oggi non è più così. E non perché il virus non faccia più paura, ma perché il terreno su cui poggia questo nuovo confinamento abitativo a cui siamo sottoposti è ormai indebolito dalla sfiducia, dalla stanchezza.
Dal punto di vista cronachistico, tutto questo è perfettamente rappresentato da due immagini che potremmo tranquillamente utilizzare come rappresentazione grafica dei due lockdown a Bergamo: la fila di camion militari lungo via Borgo Palazzo che il 18 marzo portavano via i corpi di decine e decine di vittime del virus; la folla ululante che ieri sera (5 novembre) s'è riunita sotto casa del sindaco Gori per protestare. Sono queste due foto che meglio di tutto rappresentano ciò che nessuna infografica o tabella potrebbero mai rappresentare: l'istante emotivo, lo stigma umorale della popolazione.
La folla di oltre trecento persone che da Piazza Matteotti, alle 22 circa, s'è portata sotto casa di Gori per urlare la propria contrarietà al nuovo lockdown, ripeteva in continuazione la parola «libertà». Osservando i video, ascoltando quel mantra superficiale e (consentitemelo) un po' ipocrita, ci si chiede: libertà da cosa? Libertà da chi? Quelle persone erano lì proprio perché libere di esserci. Passeggiavano, tutte appiccicate le une alle altre e con le mascherine indossate "alla buona", proprio perché erano libere di farlo.
Non colpisce la legittima voglia di tanti imprenditori, commercianti e liberi professionisti di sfogarsi perché stanno vedendo morire ciò per cui hanno lavorato, il loro presente e il loro futuro; non colpisce che si sia scelto il municipio come "simbolo" della protesta perché rappresentazione dello Stato più vicina a tutti noi. In fondo, era pure comprensibile (seppur contestabile) la presenza tra loro di esponenti dell'opposizione, pronti a farsi selfie e sciorinare frasi di circostanza buone giusto per un post su Facebook o una story su Instagram ma certo non in grado di "indirizzare" una manifestazione che, ahinoi, era guidata invece soltanto dalla pancia. S'arriva perfino a perdonare il sit-in sotto casa del sindaco, francamente fastidioso e triste perché dimostra un'ottusità istituzionale (il sindaco, in tutto questo, non c'entra nulla), per non dire una colpevole volontà di taluni di trasformare in misera tenzone politica da quattro soldi anche la reale frustrazione di centinaia, migliaia di persone. Tutto questo si può comprendere e perdonare perché fa parte, per certi versi, del gioco della democrazia.
Ma è qui che arriva il cortocircuito: quelle persone gridavano «libertà» proprio mentre stavano rappresentando l'espressione più grande di libertà che, in questo momento, la democrazia concede a tutti noi. Dunque quale libertà vorrebbero? Perché la verità è che la democrazia non è altro che un gioco di incastri e compromessi. La libertà di ognuno di noi si può spingere fino a dove arriva la libertà di un altro. E a fissare quel labile confine, teoricamente, c'è la legge, ci sono le regole, ma anche la consapevolezza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Chiedere di poter continuare a lavorare, manifestare contro un'imposizione che si ritiene sbagliata, insultare a casaccio persone e politici: tutto questo si è liberi di farlo, se lo si vuole fare. Ma senza dimenticare che le proprie libertà hanno un limite se si vuole vivere in una società civile. Un limite che, in tempi di pandemia, è fissato anche da elementi contingenti che mai avremmo pensato di dover affrontare, come quello di evitare che il virus si espanda ulteriormente e mieta nuove vittime. Abbiamo già pagato un prezzo altissimo, abbiamo già pianto troppe donne e troppi uomini.
Bergamo, che è sempre stata una città emblema di un certo tipo di orgoglio, di una certa risma valoriale grezza ma pura, ieri sera è sembrata (in parte) dimenticarsi di tutto questo. In pochi hanno deciso che la loro libertà vale più di quella di molti. Hanno deciso che anche la libertà di chi era sceso in piazza legittimamente per chiedere di non essere lasciato in mutande vale meno della loro di sbraitare cazzate negazioniste (sì, qualcuno lo ha fatto); hanno deciso che la libertà di tanti di fare tutto il possibile per evitare di ritrovarci nella situazione di marzo e aprile vale meno della loro di insultare Gori, Fontana, Conte o chicchessia. E la cosa più assurda è che, nonostante in appena un paio di ore quelle persone si siano prese tutte queste libertà, chiedessero nuovamente altre libertà non meglio precisate. Il virus fa ancora paura, ma dopo otto mesi dallo scoppio della pandemia forse è il momento di renderci conto che è questa la cosa di cui dovremmo iniziare ad avere almeno altrettanta paura.