Il bell'articolo che il New York Times ha dedicato a Bergamo e all'Atalanta
L’oscura favola dell’Atalanta
Questo è stato il più spaventoso degli anni per Bergamo, un’orgogliosa città italiana diventata sinonimo del coronavirus. All’emergere dalla pandemia, un lato positivo è stata la sua squadra di calcio a caccia del titolo
di Rory Smith
Bergamo, Italia – Giorgio Gori sorride ancora al ricordo di quella notte. Era seduto con suo figlio sugli spalti, guardando svolgersi l’inimmaginabile. La festa sembrava ribollire sotto di loro, accumulando forze che hanno finito per consumarli. «Quattro gol? Contro il Valencia? A San Siro?» disse. La formulò come una domanda, come se avesse bisogno di verificare che ciò che aveva visto era reale. Era difficile credere a cosa stesse accadendo allora. È ancora più difficile credere sia accaduto ora.
Quel giorno è stato, verosimilmente, il giorno più fiero della storia moderna dell’Atalanta. Una grande marea aveva fatto il breve viaggio da Bergamo, la fiorente graziosa città dove ha casa la squadra di calcio, a Milano, per la prima tappa della Champions League, ottavi di finale contro il Valencia. L’Atalanta non aveva mai respirato un’aria così rarefatta. Non l’aveva, in verità, nemmeno mai contemplata.
L’intera città sembrava essere stata trapiantata per quella notte. Alessando Pezzotta, un tifoso che organizza pullman per le trasferte, ne aveva organizzati dieci. Erano tutti pieni, seicento persone in tutto. Quella era solo una frazione dell’esodo. «C’erano centoventi pullman in tutto, penso, la colonna sembrava non smettere mai di arrivare».
Come sindaco di Bergamo, Gori e suo figlio erano stati invitati a vedere la partita nel box dei dirigenti. Solitamente, l’atmosfera fra la dirigenza è un po’ più trattenuta che sugli spalti, ma quella notte era diverso. Con l’Atalanta in vantaggio di quattro gol, con i quarti di finali improvvisamente in vista per la prima volta, le preoccupazioni riguardo al comportamento iniziarono a dissiparsi. «Ci stavamo abbracciando come se fossimo stati in Curva», ricorda Gori alludendo a come gli italiani chiamano il lato dello stadio dove si raccolgono i tifosi più devoti. Dopo la partita, messaggiò a Gian Piero Gasperini, l’allenatore che aveva portato la squadra fin qui, per congratularsi con lui.
Bergamo è una piccola città, e per molti dei suoi 113 anni di storia, l’Atalanta è stata una piccola squadra di provincia. Dall’arrivo di Gasperini, però, i suoi orizzonti si sono dilatati. Anche nella cronica ineguaglianza del panorama finanziario dell’élite del calcio europeo, ha trovato una via per competere con - e spesso battere - squadre dalle tasche molto più profonde. Ancora: per l’Atalanta trovarsi sulla vetta con le otto finaliste della Champions League, normalmente dominio esclusivo dell’incredibilmente benestante élite del continente, ha sfidato l’economia del calcio. Pezzotta considera quella notte - il 19 febbraio 2020 - come l’apice di una vita spesa a tifare la squadra.
Il giorno successivo, il sindaco era nel suo ufficio nel centro di Bergamo quando cominciarono a emergere notizie su un paziente ricoverato in terapia intensiva a Codogno, una città a sudest di Milano, a circa un’ora di macchina, che era stato testato positivo al coronavirus. Il giorno successivo, un secondo caso venne confermato ad Alzano Lombardo, solo pochi chilometri fuori Bergamo. In quei lunghi, tormentosi giorni nel tardo febbraio, la crisi del coronavirus sembrò ribollire attorno ai bergamaschi, anch’essa accumulando forze che hanno finito per consumarli. La città chiusa, il silenzio riempito con le sirene. Gli ospedali erano sopraffatti. Il giornale locale riempito con i nomi dei morti. L’esercitò chiamato per rimuovere i corpi. Rapidamente, i ricordi di quella notte a San Siro sembravano andare alla deriva e sbiadire, come se fossero accaduti in un altro mondo. «È stato l’ultimo giorno di ignoranza totale» ha ricordato Gori. Aveva smesso di sorridere. «È stato l’ultimo giorno in cui non eravamo preoccupati».
La solidarietà di una città
Mentre la pandemia saccheggiava l’Italia in generale, e la provincia di Bergamo in particolare, il sindaco Gori, tristemente, dovette constatare che la sua città veniva riconosciuta come “la capitale del Covid”. La più grande vittoria nella storia dell’Atalanta, che era sembrata in un primo mento una notte di gioia e meraviglia, prese una connotazione molto più oscura. Massimo Galli, un virologo all’ospedale Sacco di Milano, aveva evidenziato che radunare 40 mila tifosi insieme era stato un «vettore importante per il contagio». Fabiano di Marco, il primario di pneumologia all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove lui e i suoi colleghi combattevano per salvare il maggior numero possibile di vittime del virus, descrisse la partita come una «bomba biologica».
A Bergamo, tuttavia, nessuno riteneva la squadra - o il calcio nel suo insieme - responsabile per il dispiegarsi della tragedia. Ovviamente, riflette Gori, è buonsenso ritenere che «è stato sicuramente un episodio che ha contribuito alla sua accelerazione: tutte quelle persone nello stesso posto, che fosse lo stadio o riunite a casa o a guardarla nei bar». Ma, aggiunge, nessuno avrebbe potuto prevederlo. «Per quanto ci riguardava, il virus era qualcosa che stava accadendo in Cina, non era quello che accadde quella notte. Quella partita era il 19. Il primo caso confermato il 20. Il virus era già qui».
Lontana dall’incolpare l’Atalanta, infatti, la città tirò fuori delle forze grazie alla sua squadra. Gori vede nel ruolo dell’Atalanta a Bergamo un’eco della condizione del Barcellona in Catalogna: la squadra è espressione, e il risultato, di un’identità civica più ampia. «Negli ultimi anni, Bergamo ha iniziato a vedersi come una città europea», puntando allo sviluppo dell’aeroporto e della sua università. «Ma l’identità è più importante quando hai un panorama internazionale. I colori della squadra sono una fonte di sicurezza in un mondo globale: puoi essere un cittadino del mondo, ma sei un tifoso dell’Atalanta». È qualcosa che la società Atalanta ha desiderato enfatizzare, imbarcandosi negli anni scorsi nell’iniziativa di mandare magliette neroazzurre ai genitori di ogni neonato della provincia, incoraggiandoli a crescere i loro figli come tifosi dell’Atalanta, piuttosto che permettere loro di essere tentati dal fascino e dall’ambizione di tifare per il Milan o per l’Inter.
La pandemia non ha indebolito quel legame; lo ha rafforzato. L’Atalanta è diventata l’impalcatura con la quale la città ha risposto alla crisi. È stata la rete organizzata di tifosi - dagli ultras a gruppi come “Chei de la coriera”, l’associazione di viaggi che Pezzotta gestisce - che ha dato voce ai tifosi per raccogliersi alla Fiera di Bergamo in aiuto ai militari per costruire un ospedale da campo. Sono stati i tifosi che sono usciti di casa in una città in lockdown alle 6 del mattino, dopo una chiamata tramite gruppi Whatsapp e pagine Facebook e messaggi agli amici degli amici, per chiamare a raccolta chiunque potesse avere l’esperienza, la competenza o anche solo l’entusiasmo di aiutare.
Sono stati i tifosi che hanno racconto 60 mila euro in donazioni (più di 70.000 $) per l’ospedale Papa Giovanni XXIII – i soldi che avrebbero speso per partecipare alla partita di ritorno in Spagna contro il Valencia, partita che poi sarebbe stata una delle prime in Europa a essere disputata a porte chiuse per il coronavirus - e sono stati gli ultras che hanno commissionato a un artista una maglia per ringraziare i membri del personale medico per la loro dedizione. «È stata una donazione importante, ma importante è anche l’amore che gli atalantini hanno mostrato» ha detto Maria Beatrice Stasi, direttore generale dell’ospedale Papa Giovanni XXIII. «Questo mostra la passione e l’affetto non solo per la squadra, ma per Bergamo. In un momento molto difficile per la città, abbiamo sentito quell’affetto. Ci hanno mostrato molta solidarietà».
Grazie, Ragazzi
Nel bollente calore di agosto, Bergamo sta riaprendo con esitazione. Una manciata di turisti, a malapena una frazione dei numeri che avremmo visto qui in altri tempi, passeggia per le strade ciottolate di Città Alta. I negozi hanno rigidi limiti sul numero di clienti a cui è permesso entrare. Sulla cigolante funicolare che connette l’elegante città moderna situata ai piedi del colle alla Città Alta, la capacità è stata ridotta da 50 a 10. Durante le passeggiate serali quasi tutti indossano la mascherina. La bandiera italiana sventola ancora da finestre e balconi. Sventola anche il disegno del cuore, adottato nel picco della pandemia come simbolo, con le ultime tre lettere del nome della città in maiuscolo, giocando con la parola amore: BergAMO. Molti, tuttavia, hanno scelto un diverso modo di esprimere supporto: una bandiera a strisce nere e azzurre e le parole: «Grazie, Ragazzi».
L’Atalanta, come molte delle altre squadre europee, è tornata in campo a giugno, quando la pandemia era stata contenuta a sufficienza per rendere possibile il ritorno al gioco. Molti dei suoi tifosi più accesi erano contro la ripresa. A marzo, Claudio Galimberti, noto come “il Bocia” e capo degli ultras, scrisse al presidente dell’Atalanta insistendo per non consentire il completamento della stagione. Per altri, tuttavia, il ritorno è stato il benvenuto. «Molte persone volevano che fosse fermato il campionato, ma quelle due ore di partita, dopo che eravamo stati chiusi in casa per mesi, sono state un sollievo», dice Pezzotta, il tifoso che ha organizzato i viaggi in autobus. Per Fabio Gennari, un giornalista che ha seguito la squadra per anni, il ritorno della serie A è stato come «una spinta verso la normalità».
L’Atalanta è ripartita da dove aveva lasciato, vincendo le prime sei partite dopo l’interruzione, includendo due spettacolari rimonte, contro l’Udinese e contro la Lazio. Ha pareggiato con la Juventus e poi demolito i suoi vicini e accaniti rivali, il Brescia, 6-2.
Tutto questo è stato raggiunto nel suo stile: avventuroso, offensivo e inarrestabile. A Gasperini, l’allenatore, non piace vedere i suoi giocatori passare la palla di lato, anche se è un’opzione ragionevole. Vuole che vadano avanti, costantemente, per segnare gol, per intrattenere. Funziona. L’Atalanta, costruita senza follie, con le sue fila riempite di giocatori ritenuti delle seconde file e sottostimati dai grandi club, ha finito la stagione al terzo posto. «C’è un calcio prima e un calcio dopo Gasperini», sentenzia Gennari. Ha speso il lockdown scrivendo un libro con il suo collega Andrea Riscassi sulla rivoluzione di Gasperini: il suo titolo è: «La favola dell’Atalanta: tra sogno e realtà». Lui non esclude la possibilità di vincere la Champions League. Il fatto che il primo avversario dell’Atalanta nello stringato torneo a Lisbona sia il Paris St. Germain, verosimilmente il più ricco club del mondo, non è un motivo per essere intimoriti. «Questa squadra ha un’incredibile forza mentale», afferma Gennari, «possono vincere, ma hanno già vinto, essendo qui».
Così si sente anche la città. «La sofferenza delle persone in lutto per le proprie famiglie non può essere sollevata» dice Stasi, la direttrice dell’ospedale. «Lo sport non può cancellare quel dolore. Ma alla città nel complesso, una città che ha sofferto molto, offre speranza». Per il sindaco Gori il collegamento è ancora più diretto. L’Atalanta è sempre stata un simbolo per la città. Negli ultimi mesi è servita come una bandiera per risollevarsi. Adesso, tuttavia, può funzionare come metafora per Bergamo, un promemoria che è possibile tornare, superare i conflitti, emergere più forti dopo un periodo di difficoltà. «La città può trovare una ragione per l’ottimismo nella storia dell’Atalanta, può essere un segno della rinascita della città. Non è possibile dimenticare quello che è accaduto. È troppo vicino, troppo doloroso. Troppe famiglie hanno perso i genitori o un fratello o una sorella. Queste vittime non sono statistiche: sono storie personali per ogni famiglia coinvolta. Ma abbiamo bisogno di pensare anche a quello che viene dopo. Chiunque sa dov’è Bergamo, per questa tragedia. Dobbiamo costruire un’associazione positiva. Bergamo può essere conosciuta per il Covid. Ma può anche esserlo per l’Atalanta».
(Traduzione di Michele Ongis)