I miei anni da ragazza con Benedetto XVI

«Non aveva l’aria simpatica, il nuovo papa. E quindi mi piaceva...»

«Non aveva l’aria simpatica, il nuovo papa. E quindi mi piaceva...»
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di Elisa Leoni

Terza liceo, 19 aprile del 2005. Stavo seduta su una delle sedie di plastica verde dell’oratorio, in quell’inquieto tempo dell’adolescenza in cui il mio confine ancora era relegato tra scuola e parrocchia. Era appena finito l’incontro per adolescenti. Mia mamma mi aspettava per cena, ore 19.00, 19.30 al massimo. La suora accendeva il proiettore: avevano eletto - diceva - «il Santo Padre».

Il papa di tutta la mia vita era stato Giovanni Paolo II. Non avevo mai ascoltato le tv raccontare di conclave, fumate nere e bianche, scrutini. Della complessa politica che stava dietro l’elezione di un pontefice, mentre mia nonna mi ricordava che il papa lo sceglieva lo Spirito Santo, e punto.

Quindi, ecco, sul muro dell’oratorio, dal balcone di piazza San Pietro, il nuovo papa della mia giovinezza: un tedesco con un nome aristocratico, vestito con una mantellina scarlatta, una catena d’oro a reggere una croce massiccia con gemme smeraldo, e una stola degli stessi colori, finemente ricamata.

Aveva scelto un nome che a me piaceva: Benedetto. Mi ricordava l’abbazia di Pontida, che aveva cresciuto ed educato mia mamma. Mi ricordava qualcosa di sottile, di medievale, di dignitoso. Non aveva l’aria simpatica, il nuovo papa. E quindi mi piaceva.

In piazza San Pietro, quando con le scuole medie ero andata a incontrare Wojtyla, l’atmosfera di festa si respirava dal primo momento in cui lui compariva con la papa-mobile. Ma a me era sempre sembrata un po’ troppo facile.

Con questo cardinal Ratzinger mi pareva ci fosse poco da scherzare, poco da mediare. Mi pareva fosse uno che non amava il casino, i sorrisi a vuoto. Con quella specie di sogghigno che era solo la sua faccia e quelle orecchie da elfo: tratti, entrambi, per cui tutti lo avrebbero preso parecchio in giro, sui social e non, da lì in poi; sarebbero anche girati video e commenti su quanto fosse nazista, da lì in poi. Ma a me piaceva. Sapeva di incenso, di scrittoi d’ebano e fughe di Bach.

Benedetto XVI, su quel balcone, aveva pronunciato una frase che avrei ricordato per sempre: «Me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore», perché Dio lavora anche con «strumenti insufficienti».

Quella frase della vigna del Signore la cito ogni volta che in quarta liceo parliamo di Manfredi in Purgatorio, salvato da Dante per via di una «lacrimuccia» in punto di morte; come i lavoratori nella vigna dell’ultim’ora.

Ratzinger, comunque, io lo conoscevo già prima. Che fossi un’adolescente strana è chiaro anche dal fatto che di lui avevo letto già qualcosa, su consiglio del mio don.

Ratzinger per me era 23 pagine pubblicate da 30giorni (direttore: Giulio Andreotti, ok) che io ogni Pasqua ancora oggi tiro giù dalla libreria e leggo. Da almeno vent’anni anni. Quelle, e Getsemani di Péguy. Ma prima quelle. È un opuscoletto del 1994 che si intitola L’angoscia di un’assenza: sono tre meditazioni sul Sabato Santo. L’incipit lo so a memoria: «Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio». Poi va avanti: Ratzinger scrive benissimo - mica ve lo devo dire io -, con una finezza di pensiero filosofica, letteraria, sorprendente. Alla fine, a quella ragazzina che leggeva, era chiara una cosa: nel giorno del Sabato Santo, la chiesa per ventiquattr’ore è - vive, esiste, respira, permane - ma in assenza di Dio. Sul come faccia, leggetevi l’opuscolo, che se lo leggo da vent’anni ci sarà un motivo.

Quindi, io ogni Sabato Santo penso a Ratzinger. E mi accompagna. Come una rivelazione, come qualcosa che riverbera bene dentro di me, come solo i grandi sanno fare.

Cosa sia ora Ratzinger per me è complesso da dire. In tanti abbiamo visto I due papi su Netflix e l’argentino ci è sembrato per forza migliore; in tanti amiamo Bergoglio (ma del resto, come si fa a non). Eppure, qualcosa in me ha sempre avuto nostalgia di Ratzinger. Forse è che sono nata vecchia. Forse è che quel silenzio solitario che lo avvolgeva mi faceva compagnia. Lo sentivo fratello nella sua testa che funzionava veloce, mentre pensava e ripensava e ripensava a quella fede; mentre non sorrideva, e in quella fede cercava, leggeva, apriva porte in silenzio.

Alla GMG di Colonia, a cui probabilmente siamo andati tutti noi ragazzi di allora, fosse anche solo per stare insieme, in quel prato umido dove la rugiada colava sul collo dal sacco a pelo per tutta la notte, per me era chiaro: Ratzinger lì non c’entrava niente. I giornali avevano scritto che i giovani avevano accolto il papa, che il nuovo pontificato - in quel suo primo incarico - era iniziato sotto la buona stella dei Magi e sarebbe continuato in un afflato tra nuove forze della cristianità e papa Benedetto XVI. Avevamo 17 anni, certo che gridavamo il suo nome; ma non funzionava come con Wojtyla. E a me piaceva un casino, quel papa freddissimo, che tutti fraintendevano, che nessuno aveva la pazienza di stare ad ascoltare.

Io l’ho ascoltato tanto. Da Ratisbona a tutti gli altri discorsi: quando sferzava, prendeva posizione, creava un contrasto pazzesco tra il taglio delle sue frasi e il suo tono sempre un po’ a bassa voce. In quel suo italiano così tedesco, così odioso per tanti. Di Ratzinger a me piaceva l’eleganza del cervello, della fede. La saggezza della Chiesa che sapeva alternare, nella continuità, senza alcun senso logico, per Spirito Santo o che ne so, un pontefice all’altro, un universo umano - e divino - all’altro.

Ratzinger era il papa di chi aveva voglia di star lì ad andare a fondo, di meditare su tutti i suoi complessi discorsi, sulla figura di Cristo, su cosa vuol dire credere senza che nessuno te lo spieghi troppo bene subito, senza che nessuno ti renda simpatica l’idea. A me quella fatica piaceva.

Nel film Netflix a un certo punto il personaggio di Ratzinger dice: «Dio corregge sempre un papa presentando al mondo un altro papa. Mi piacerebbe vedere la mia correzione». Poi lascia il papato e la correzione è chiaro sia molto più di una correzione: è Bergoglio. È la forza di una religione che non cede di un passo, nemmeno in questi tempi, e che trova il modo di muoversi, come si muove il mondo. Del resto, ciò che non si muove è morto. E - si mettano tutti l’anima in pace - la Chiesa ancora no.

Da Ratzinger io non mi aspettavo la rinuncia. Forse nessuno se la aspettava, ma io in particolare. Perché mi pareva uno di quelli che si intestardiscono di più proprio quando gli dicono: «Lascia perdere». Mi sembrava l’unico che non avrebbe ceduto mai; pregiudizio sui tedeschi, anche. Pure quando c’era stata la questione della pedofilia. Io avevo fiducia nello spiritualissimo filo d’acciaio che quel papa rappresentava per me.

L’11 febbraio era il compleanno di mia mamma, il giorno dei Patti Lateranensi; l’anno era il 2013. Io avevo lasciato Medicina per studiare Lettere, Ratzinger mi insegnava l’unica cosa che ancora non avevo capito, nonostante i miei cambi di rotta: quando è il momento di farti da parte, perché il bene è più grande di te; che chiunque - dai, in effetti - conta decisamente meno di quello che conta. «Ben consapevole della gravità di questo mio atto, con piena libertà». E manco puoi trovare scuse.

Poi hanno scritto fiumi di pagine e a me sembrava che tutto quello che avevo amato di Benedetto avesse un senso solo in quel momento. Nell’infinita delicatezza di uno che dice: da qui in poi io sono solo un uomo, Dio saprà. Ma quanto coraggio ci vuole. A star lì a pregare in silenzio per anni, all’ombra di un altro così tanto più amato di te, eppure ancora all’ombra di Dio (il che, in effetti, aiuta). Mentre eri stato scelto per il seggio più alto di tutti. Io, quando l’ho visto comparire in tv in questi anni da papa emerito, ogni volta ho pensato al discorso di insediamento: «Il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti». E averlo capito. E averlo accettato. Senza neanche una smorfia. Come avrà fatto.

Qualche giorno fa, quando Bergoglio ha chiesto di pregare per lui, ho fatto un giro in Google. E ho ritrovato il discorso di Subiaco. L’ultimo che Benedetto XVI ha tenuto prima di diventare papa. È una lezione complicata, bellissima. A un certo punto dice: «Meno visibili, ma non per questo meno inquietanti, sono le possibilità di automanipolazione che l’uomo ha acquisito. Egli ha scandagliato i recessi dell’essere, ha decifrato le componenti dell’essere umano, e ora è in grado, per così dire, di “costruire” da sé l’uomo, che così non viene più al mondo come dono del Creatore, ma come prodotto del nostro agire […] Così, quest’uomo […] non è più altro che immagine dell’uomo – di quale uomo?».

Poi oggi mi dicono che Benedetto è morto. È l’ultimo evento di un anno, questo 2022, in cui io ho smesso di essere tanto di quello che ero, per crescere, costruire, per lasciare che la Provvidenza badasse a una strada in cui troppo spesso ho creduto di decidere io soltanto tutto quanto. E quindi muore Ratzinger, e quindi il discorso di Subiaco. Chiaro.

Io spero che nessun vangelo si sfogli al vento sopra la sua bara il giorno delle esequie; che non ci siano dettagli da film da dare in pasto alle telecamere. Spero in un cielo composto, grigio tendente al meditativo, sopra San Pietro. E che gli suonino Vivaldi. Spero che i giornalisti non facciano commenti idioti alla tv, non abbiano niente da scrivere di melenso o retorico; e che facciano fatica a trovare titoli ad effetto. Spero in un grandissimo silenzio. Spero di vedere Benedetto XVI andarsene al Padre nello stesso modo in cui ha vissuto: con l’eleganza in attesa, nascosta, di una corda di pianoforte.

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