Il punto di vista

Se il consumismo corre (pure lui) in montagna: «È un mondo esasperato»

L'alpinista Zaffaroni, grande amico di Mario Merelli: «Il nostro mondo esasperato ci porta a rischiare sempre di più. Per sentirci vivi»

Se il consumismo corre (pure lui) in montagna: «È un mondo esasperato»
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di Ettore Ongis

La montagna in questa settimana ha fatto discutere per l’infelice uscita del direttore editoriale del Cai sulle croci in vetta. Ma in questo periodo le cime e i sentieri hanno occupato le prime pagine di giornali e siti soprattutto per le numerose tragedie che hanno coinvolto alpinisti ed escursionisti. Croci pesantissime. Delle quali, purtroppo, non si discute abbastanza.

C’è qualcosa da rivedere nel nostro modo di vivere la montagna? Ne abbiamo parlato con Marco Zaffaroni, il migliore amico di Mario Merelli, l’alpinista di Lizzola caduto sul Pizzo Scais undici anni fa. Merelli è forse l’alpinista che più di ogni altro ha incarnato lo spirito della nostra montagna.

Lei e Mario condividevate la stessa idea di montagna?

«Io non so che idea avesse Mario della montagna e non so neppure che idea ne ho io. Non abbiamo mai fatto congetture: salivamo insieme e in spedizione stavamo bene. Tutto qui, capisci? Secondo me, chi dice “condividiamo la stessa idea di montagna” è gente che in montagna ci va poco. Non è l’idea di montagna che muove, è la condivisione. Noi probabilmente avevamo la stessa visione ideale, ma proprio per questo non avevamo bisogno di parlarne».

Ma il vostro modo di affrontare questa passione era diverso?

«Mario a Lizzola viveva la montagna tutti i giorni, mentre io facevo altro. Lui arrampicava, faceva “free ride” (l’attività fuoripista in neve fresca), non gli piaceva la corsa in montagna, diceva sempre che l’himalaista non deve sprecare tempo a fare gare e apostrofava in modo colorito chi si metteva “in mutande”. Io la pensavo diversamente. A me avere il pettorale o (far finta di) correre piace e quindi vado. Eppure, a modo suo, Mario era molto più competitivo di me: a me non fregava niente se arrivavo anche dietro alla coda del maiale, lui invece doveva primeggiare».

E primeggiava in Himalaya.

«Io fino a cinquemila metri scalpitavo perché lui era più lento, si fermava a fumare la sigaretta, si metteva a ciacolare con tutti i tizi che passavano, ma dai cinquemila in su andava al doppio di me. La cosa importante, però, era che facendo le cose insieme stavamo bene, capisci? L’idea di montagna è quanto bene stai in quell’ambiente e ognuno trova la sua formula».

Adesso lei vede alpinisti ed escursionisti che stanno bene salendo insieme?

«Con Mario di queste cose non ho mai parlato, anche perché è andato via prima del tempo. Le posso dire la mia idea».

Marco Zaffaroni con Mario Merelli all'ospedale benefico sostenuto in Nepal

Qual è?
«Che si seguono troppo le mode. Un giorno è bello correre in montagna, allora compriamo l’attrezzatura per correre; il giorno dopo è bello lo scialpinismo e compriamo tutta la roba per fare scialpinismo. Ma ti piace farli o ti hanno detto che è bello farli? Sono due cose molto diverse».

A lei piace correre.

«Mi piace chi corre, gente come Cesare Bugada, un po’ meno quelli che corrono in montagna perché così fan tutti. E poi ti trovi alcuni che si avventurano negli ultra trail e quando scende la notte ti aspettano perché hanno paura a stare al buio. O quelli che ci mettono due giorni per arrivare al rifugio per poi rimpinzarsi di polenta e camoscio come se non ci fosse un domani. Ti portano a essere così».

Può spiegarci meglio?

«Il nostro mondo esasperato e fondato sul consumo ci porta a essere così. Riesce perfino a farti pensare che è bello fare tutte le domeniche gare di cento chilometri. E perché mai? Perché gli scarponi non si vendono più e allora bisogna vendere le scarpette da trekking. È il mood consumistico, che dopo averci rimbambito nella vita quotidiana, ci rimbambisce anche nel tempo libero (...)

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