Indagini chiuse

Ecco perché l'inchiesta sul Covid della Procura di Bergamo non ci dirà la verità

Non può essere (e non sarà) la giustizia a valutare scelte politiche e morali. Errori gravi ci furono e li conosciamo, ma non per forza sono reati

Ecco perché l'inchiesta sul Covid della Procura di Bergamo non ci dirà la verità
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di Andrea Rossetti

Di giorno in giorno, l’obiettivo nel mirino della stampa e dell’opinione pubblica cambia. Dalla politica romana e milanese si è passati ai funzionari di Regione, poi agli imprenditori e ai vertici della Sanità locale. Le ipotesi di reato, le accuse, si perdono tra stralci di intercettazioni, mail, chat, testimonianze (anonime e non), sentito dire.

Del resto, nei plichi di documenti raccolti (e poi forniti alla stampa, chissà da chi) dalla Procura di Bergamo in questi anni di indagini sul Covid di carne ce n’è in abbondanza. Abbastanza da creare una coltre di fumo così densa da diventare un muro inscalfibile.

Una mole tale di informazioni che, di fatto, per qualcuno già valgono quanto una sentenza. Lo dimostrano quegli abbracci, quelle lacrime e quelle dichiarazioni esultanti rilasciate da alcuni membri dell’associazione #Sereniesempreuniti (che riunisce parte dei familiari di vittime del coronavirus) la mattina del 2 marzo in Piazza Dante.

Eppure, di sentenze ancora non ce ne sono. Neppure si sa se si terrà un processo. Come spesso capita in questi casi, l’emotività corre più veloce della razionalità e così si perde di vista l’orizzonte. È bene quindi provare a mettere dei punti in una storia tanto complessa quanto dolorosa.

Errori furono commessi

È evidente che, in quei terribili mesi di inizio 2020, vennero commessi degli errori. La zona rossa tra Alzano e Nembro andava fatta; il piano pandemico non era aggiornato (e non fu seguito neppure quello vecchio); imprese e commercianti non volevano chiudere; amministratori e giornalisti sottovalutarono la situazione.

Tutto fu chiaro quando ormai era troppo tardi e gli scienziati non aiutarono a capire, così come la medicina non fu subito in grado di affrontare quel nemico fino ad allora sconosciuto. I parenti di molte delle prime vittime non volevano si dicesse che i loro cari erano morti per Covid, come fosse uno stigma.

Mancavano le mascherine, mancavano i guanti, mancava l’ossigeno, mancava la sanità sul territorio. I dati non c’erano, non venivano forniti e quando si iniziò a raccoglierli erano sbagliati o sottostimavano la realtà (un problema andato avanti per molto tempo).

Questi sono solo alcuni, i più macroscopici se vogliamo, errori che furono commessi. Errori politici, di scelta, di sottovalutazione, di quel che volete. Errori che, in molti casi, avrebbero meritato una “punizione” e per i quali, sicuramente, sarebbe stato bene che qualcuno chiedesse scusa. Ma le scuse non ci sono mai state. Il punto, però, è un altro: questi errori configurano anche dei reati?

La giustizia non è la verità

È questa la domanda che, giustamente, si deve porre (e si è posta) la Procura di Bergamo. Ed è a questa, solamente a questa, che i magistrati devono dare risposta. O sì o no, non ci sono vie di mezzo.

Le ipotesi di reato avanzate dagli inquirenti nei confronti dei numerosi indagati (più o meno noti) sono, in ordine di “peso”, epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio. Codice e giurisprudenza alla mano, di questi tre l’unico che pare avere delle fondamenta un pelo più solide è (...)

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