Una nuova ricerca

Uno studio, condotto anche sull'aria di Bergamo, nega legami tra Covid e inquinamento

È stato realizzato dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Lecce e Bologna e dall’Arpa. Analizzate le rilevazioni a Milano e nella nostra provincia

Uno studio, condotto anche sull'aria di Bergamo, nega legami tra Covid e inquinamento
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L’esistenza di un possibile legame tra diffusione del Covid e inquinamento è stato un tema dibattuto all’interno della comunità scientifica fin dalle prime fasi dell’emergenza sanitaria. Anche perché la prima ondata pandemica ha colpito con particolare violenza il Nord Italia, in particolar modo la Lombardia, la regione in cui si è registrata la maggiore circolazione del virus. A maggio erano 76.469 i casi registrati, pari al 36,9 per cento del totale italiano. Ora, però, uno studio recentemente condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Lecce e Bologna e dall’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Lombardia (Arpa), dimostrerebbe che particolato atmosferico e virus non interagiscono tra loro. Un risultato che si scontra con un altro studio, pubblicato a metà dicembre e diretto dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, in collaborazione con l’Università del Salento e l’Istituto Superiore di Sanità.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Environmental Research, è stata condotta analizzando le rilevazioni dello scorso inverno a Milano e Bergamo, città tra i maggiori focolai di Covid. «Tra le tesi avanzate, vi è quella che mette in relazione la diffusione virale con i parametri atmosferici, ipotizzando che scarsa ventilazione e stabilità atmosferica, tipiche del periodo invernale nella pianura Padana, e il particolato atmosferico, cioè le particelle solide o liquide di sorgenti naturali e antropiche, presenti in atmosfera in elevate concentrazioni nel periodo invernale in Lombardia, possano favorire la trasmissione in aria del contagio - spiega Daniele Contini, ricercatore di Cnr-Isac di Lecce -. È stato supposto che tali elementi possano agire come veicolo per il Sars-CoV-2 formando degli agglomerati, detti clusters, con le emissioni respiratorie delle persone infette. In tal caso il conseguente trasporto a grande distanza e l’incremento del tempo di permanenza in atmosfera del particolato emesso avrebbero potuto favorire la diffusione del contagio».

Nella ricerca sono state stimate le concentrazioni di particelle virali in atmosfera a Milano e Bergamo in funzione del numero delle persone positive nel periodo di studio, sia in termini medi sia nello scenario peggiore riguardo la dispersione degli inquinanti. «I risultati in aree pubbliche all’aperto mostrano concentrazioni molto basse, inferiori a una particella virale per metro cubo di aria - prosegue Contini -. Anche ipotizzando una quota di infetti pari al 10 per cento della popolazione (ossia circa 140 mila persone a Milano e 12 mila a Bergamo), ossia dieci volte maggiore rispetto a quella attualmente rilevata (circa 1 per cento), sarebbero necessarie, in media, 38 ore a Milano e 61 ore a Bergamo per inspirare una singola particella virale. Si deve però tenere conto che una singola particella virale può non essere sufficiente a trasmettere il contagio e che il tempo medio necessario a inspirare il materiale virale è tipicamente tra 10 e 100 volte più lungo di quello relativo alla singola particella, quindi variabile tra decine di giorni e alcuni mesi di esposizione outdoor continuativa. La maggiore probabilità di trasmissione in aria del contagio, al di fuori di zone di assembramento, appare dunque essenzialmente trascurabile».

«Per avere una probabilità media del 50 per cento di individuare il Sars-CoV-2 nei campioni giornalieri di Pm10 a Milano sarebbe necessario un numero di contagiati, anche asintomatici, pari a circa 45 mila nella città di Milano e a circa 6.300 a Bergamo – conclude Vorne Gianelle responsabile del Centro specialistico di monitoraggio della qualità dell’aria di Arpa Lombardia -. Allo stato attuale delle ricerche, l’identificazione del nuovo coronavirus in aria non appare un metodo efficace di allerta precoce per le ondate pandemiche».

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