Quel suicidio in cella e la dura vita nel carcere di via Gleno nell'anno del Covid
Il diacono, amico di don Fausto Resmini e volontario, racconta la tragedia nella tragedia di Maurizio Quattrocchi, il detenuto che ha scritto una lettera alle figlie e si è tolto la vita
di Andrea Rossetti
«Non vi chiedo di perdonarmi, perché per quello che ho fatto non c’è giustificazione. Prego Dio che un giorno io possa riabbracciare le mie figlie». Sono le ultime righe scritte da Maurizio Quattrocchi nella lettera destinata alle sue figlie e che l’avvocato Gianfranco Ceci, martedì 11 maggio, ha letto nell’aula del Tribunale di Bergamo in cui si è chiusa la vicenda giudiziaria di Quattrocchi.
Il 49enne, a processo per aver ucciso con diciotto coltellate, nell’ottobre 2019, la moglie Zinaida Solonari, nella notte tra giovedì 6 e venerdì 7 maggio si è tolto la vita in una cella del carcere di Bergamo. Dopo aver scritto quella lettera, ha detto al compagno di cella di non disturbarlo, si è chiuso in bagno e se ne è andato per sempre.
Una tragedia nella tragedia, soprattutto per chi, come don Valentino Facchetti, 74 anni, diacono in servizio in via Gleno, vive il carcere come una comunità e i detenuti come dei compagni di viaggio. Don Valentino conosceva Quattrocchi. Fu proprio lui, i giorni successivi all’arresto, ad “aiutarlo”. «Non aveva niente con sé - ricorda il diacono -. Don Fausto Resmini mi disse di dargli una mano. Lui era di Cologno al Serio, io sono di Morengo. Infransi un po’ le regole, che prevedono tutto un iter giudiziario per queste cose, ma riuscii a fargli avere dei vestiti e qualche aiuto da parte dei suoi parenti».
Nulla di nuovo, per don Valentino. Che in carcere ci va da quindici anni («O forse pure di più») e per i detenuti fa un po’ di tutto: dalle telefonate ad amici, parenti e legali fino alla gestione delle loro finanze. Con l’arrivo del Covid, lui i due cappellani del carcere - don Luciano Tengattini e don Giambattista Mazzucchetti - hanno assunto un ruolo ancora più importante per i carcerati, diventando l’unica forma di contatto con il mondo esterno. Non è stato facile, ammette don Valentino. E anche superare la morte di Quattrocchi non sarà facile.
Lo aveva visto, recentemente?
«Sì, mercoledì 5 maggio mi sembra. Gli chiesi il favore di portare una cosa a dei detenuti».
Non ha parlato con lui del processo, quindi.
«No. Ma non è mai stato un tipo di troppe parole. Con me chiacchierava un po’ di più, forse perché ero stato il primo ad avvicinarlo e ad aiutarlo quando arrivò in carcere, ma non si è mai aperto. È vero però che quell’ultima volta che l’ho visto sembrava diverso...».
In che senso?
«Preoccupato, non sereno. Ho immaginato che l’udienza del giorno precedente lo avesse scosso».
Com’è possibile che nessuno si sia accorto del fatto che volesse togliersi la vita?
«Purtroppo non è assurdo, non può esserci sempre qualcuno in ogni cella. A una certa ora, la sera, le celle vengono chiuse fino alla mattina successiva».
È la prima volta che si trova ad affrontare un fatto del genere in carcere?
«No, purtroppo no. In passato, però, era soprattutto don Fausto a occuparsene. Nel senso che era il primo a venire avvisato. Io e gli altri lo sapevamo di riflesso».
I suicidi sono frequenti?
«Fortunatamente no. Almeno qui a Bergamo. È un buon carcere, questo. Non il migliore, ma nemmeno il peggiore».
Il Covid e il conseguente isolamento dal mondo esterno hanno acuito i disagi della comunità carceraria?
«Sì, senza dubbio. Ha cancellato ogni tipo di contatto con il fuori. Niente più uscite, niente più visite dei parenti. Niente. Sono stati mesi duri».
Anche per lei?
«Più per don Luciano e don Giambattista. Io dall’inizio della pandemia a settembre scorso non sono potuto entrare in carcere, anche perché ho la mia età... Poi, però, mi hanno finalmente permesso di tornare. C’era bisogno di dare una mano. Senza più le visite dei parenti anche i detenuti hanno bisogno di più aiuto. Spirituale, ma anche concreto».