Cinema

“Le otto montagne” infonde una malinconia per qualcosa che si è perso per sempre

Nel film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch quasi ogni dettaglio a schermo ha un suo scopo, un messaggio, una funzione

“Le otto montagne” infonde una malinconia per qualcosa che si è perso per sempre
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Di Fabio Busi

Il cinema non può spiegare tutto, non ha lo spazio di pagine e pagine, fitte di parole. Deve suggerire, indicare una soglia che tutti possono vedere, ma solo alcuni sanno guardare. In questo senso, “Le otto montagne” di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch raggiunge un raro equilibrio. Da una parte fa pesare ogni singola frase, la mastica con fare pensoso e la dona come voce fuori campo, mentre scorrono immagini estatiche di luoghi montani. Dall'altra si fida massimamente del mezzo cinematografico, inculcando nella visione una grande quantità di significati.

È una di quelle opere così accurate che quasi ogni dettaglio a schermo ha un suo scopo, un messaggio, una funzione. Un cinema spesso reticente, che chiede tanto allo spettatore (le informazioni banali non vengono spiegate, e anche alcune meno ovvie). Gli chiede di guardare bene e comprendere l'anima dentro le cose, nei gesti, negli oggetti, nei muri. Senza contare il grido della natura, del mondo. Dalle Alpi alla pianura, dall'Italia al Nepal.

Quando spiega, lo fa con le parole soppesate del libro di Cognetti, e funzionano perfettamente come chiave di volta a suggello di architetture che le sequenze hanno prima costruito con pazienza. Sembrano quasi semplici, piane, le frasi a commento. Ma poi il film prosegue e da piccola vicenda sembra quasi diventare un'epopea. La storia dell'uomo urbano e quella dell'uomo dei monti, che si sfiorano, proseguendo verso esiti sempre molto radicali. Un poco per volta la piccola storia di due amici assurge a significati più grandi, generali, ma lo fa con un passo meditato e mai “più lungo della gamba”.

Un pezzetto alla volta arriva a consegnarci un messaggio che è più che altro un languore, come una malinconia per qualcosa che si è perso per sempre. Nella vicenda di Bruno c'è la fine di un pezzo della nostra civiltà, nei pentimenti e nelle riflessioni di Pietro c'è il rovello dell'uomo metropolitano che comprende i vuoti della sua esistenza, ma ormai ha perso l'occasione per riempirli davvero. Non può più tornare a quella montagna, la prima, e perciò deve continuare a peregrinare sulle altre otto. Senza trovare mai la vera pace.

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