La recensione

“Un colpo di fortuna”: Woody Allen torna a “Match Point”, ma in chiave più edificante

Il cinquantesimo film è solido, ben girato, ma a tratti accomodante. Una storia (un po’ prevedibile) di tradimenti e omicidi, su cui aleggia la dea bendata

“Un colpo di fortuna”: Woody Allen torna a “Match Point”, ma in chiave più edificante
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Di Fabio Busi

Un passo indietro rispetto a “Un giorno di pioggia a New York” e “La ruota delle meraviglie”. L'ultimo film dell'incorreggibile Woody Allen, trattato con i guanti dalla critica e presentato a Venezia quasi a indicare la riabilitazione del cineasta dopo le bufere del “Me too”, sembra ginnastica ordinaria per un simile talento.

“Un colpo di fortuna” è un lavoro solido e accomodante, che piacerà sicuramente a chi frequenta poco il regista. Una storia borghese molto chiara e scandita, quasi caricaturale per chi conosce le sfumature e l'ironia di Allen. Basta un semplice confronto con il ben più conturbante “Match Point” per stabilirne la statura, tutt'altro che ciclopica.

Nel lavoro del 2005 si parlava sempre di delitto e castigo (mancato), ma il tema della casualità veniva declinato in pieno sul protagonista, che assumeva i connotati di un arrampicatore sociale sfacciatamente fortunato. Qui ci si accontenta di plasmare un marito cattivo e vendicatore, che riversa le sue manie di controllo sulla moglie-trofeo. Temi più facili, poche sfumature, nessuna provocazione.

Dalla beffarda fortuna di un protagonista diabolico passiamo all’edificante sfortuna di un antagonista odioso e bidimensionale. Non c'è catarsi, non c'è commozione. Una gestione anticlimatica (nel senso di climax) dei momenti chiave. I sentimenti sono smorzati nel contesto alto-borghese parigino, dove le persone sembrano recitare se stesse.

Si ha quasi la sensazione di vederne in anticipo gli sviluppi, perché il film vive degli schemi logici più abituali (e consunti) del regista. Non stupiscono le alterne mareggiate emotive della protagonista Fanny, non lascia a bocca aperta il colpo di scena, così come risulta depotenziata la morale finale, soprattutto dopo averla pienamente assaporata nel capolavoro del 2005.
La scrittura non apre grandi traiettorie centrifughe, come nella miglior tradizione alleniana, ma rimastica continuamente i medesimi concetti, come a voler spiegare meglio ciò che è già chiaro. Un Woody che vuole piacere, che vuole risultare semplice e condivisibile a ogni costo. Non un brutto film, semplicemente un lavoro manieristico, che rielabora in chiave minore temi già fatti decantare in passato. Sembra quasi che sta volta abbia dato più attenzione alla regia rispetto alla sceneggiatura, e in questo senso ci regala alcuni piani sequenza davvero degni di nota.

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