Dentro il cantiere

L'incredibile capolavoro degli artigiani bergamaschi: un ospedale alla Fiera in pochi giorni

«Fieri di Bergamo. Fiera di Bergamo». È questo il manifesto appeso all'entrata della struttura che da mercoledì ospiterà malati di Covid-19. Foto e storie uniche

L'incredibile capolavoro degli artigiani bergamaschi: un ospedale alla Fiera in pochi giorni
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di Heidi Busetti, foto di Devid Rotasperti

«Fieri di Bergamo. Fiera di Bergamo». È questo il manifesto appeso all'entrata della struttura che da mercoledì diventerà un vero e proprio Pronto Soccorso per i malati di Covid-19. Allestito in pochissimi giorni - si possono contare sulle dita di una mano - doveva inizialmente essere un ospedale da campo, invece ospiterà anche una farmacia, un reparto di analisi e di radiologia e letti per la degenza e la terapia intensiva. A lavorare a un'impresa che lascia stupefatti per velocità, intelligenza logistica e cuore, moltissimi artigiani che non hanno esitato a rispondere all'appello lanciato da Giacinto Giambellini, presidente di Confartigianato Bergamo, tramite una mail. Sono bastate quattro ore per mandare in tilt il sistema di raccolta dati e compilare un elenco lungo dieci pagine, con i nomi e i cognomi di artigiani pronti a fare la loro parte. Diego Armellini è uno di loro. Sguardo fiero e un linguaggio chiaro che non lascia spazio alle incertezze, definisce l’esperienza dell’ospedale come qualcosa «di forte impatto. Un'esperienza che nella tragicità ha dato vita ad un momento di comunità indimenticabile».

Un’esperienza che resterà nella storia...

«Guardi, è tutto molto semplice: volevamo sentirci utili anche non potendo lavorare. In pochi giorni, ho visto colleghi che hanno ruoli importanti in azienda togliersi la maschera da imprenditori per indossare la mascherina. È stato un lavoro enorme che ha richiesto capacità e determinazione, ma ciò che ha dell’incredibile è la forza da cui tutti eravamo mossi. Una forza pazzesca, che ci ha permesso di lavorare per ore interminabili. Non ho mai visto nessuno lavorare a questa velocità. Nessuno. Nemmeno i cottimisti».

Cento, ma anche centocinquanta artigiani che lavorano in contemporanea. E nemmeno un attimo di smarrimento, di confusione. Come avete fatto?

«Ovviamente c’era un progetto generale e ovviamente non era possibile che poche persone coordinassero così tanti artigiani tutti insieme. Ognuno quindi si è dovuto assumere la responsabilità del proprio pezzo indipendentemente dalla regia. Non si poteva coordinare e controllare ogni cosa, perché avrebbe richiesto troppo tempo. Ogni artigiano ha dovuto fare delle scelte tecniche che solitamente nei cantieri non fa. Questo ha accelerato in modo esponenziale il tutto, anche se la contropartita era il rischio di dover rifare un lavoro».

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C’è voluto un grande senso di responsabilità...

«Assolutamente. E indipendentemente dal fatto che a nessuno sarebbe entrato un solo euro in tasca. Il segreto è stato proprio questo: chiedere ad ogni persona di assumersi un piccolo pezzo di responsabilità. D'altronde i Bergamaschi in questo sono eccezionali, e lo dico da calabrese. La politica adottata non è quella di partire dall'alto per scendere a cascata, ma al contrario, si è partiti dal basso, dalla forza locale, che è estremamente più potente».

E per i fondi?

«Ah guardi, qui si è partiti indipendentemente dal fatto che ci fosse il denaro. Questo infatti è un tema che ho visto poco nella comunicazione. In Cina hanno fatto un ospedale in dieci giorni, ma con i fondi. Qui lo abbiamo costruito in tre senza sovvenzioni. Tutti coloro che hanno aderito sia con attrezzature che manodopera, lo hanno fatto gratuitamente. C’è stato un senso di comunità così potente che ognuno ha sentito il dovere e il piacere di fare ciò che poteva. Le imprese hanno fornito i materiali, gli artigiani la manodopera e le strumentazioni, tutto su base gratuita. Non c’è stato nemmeno il tempo di prendere accordi, c'è stato solo il tempo prezioso di raccogliere i volontari».

Non avevate paura di ammalarvi?

«Non c’era spazio per la paura. Anche quando eravamo in centocinquanta a giro, una presenza esasperata, la paura di ammalarsi non si è mai presentata. Abbiamo lavorato con guanti e mascherine, il minimo della protezione unito a un grande senso di appartenenza. Abbiamo cercato il più possibile di mantenere le distanze di sicurezza, ma comunque non potevamo fermarci. E siamo stati davvero in tanti... pensi che l’elenco degli artigiani disponibili ha riempito dieci pagine. Ricordo che quando martedì siamo arrivati in Fiera, i furgoni coprivano un’ampia area del parcheggio... una task force impressionante. L’urgenza, la gravità percepita a livello collettivo è sempre stata superiore alla paura».

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Che media d’età avevano gli artigiani che hanno lavorato alla realizzazione dell’ospedale?

«Gli artigiani che hanno lavorato in Fiera erano soprattutto giovani, anche perché il virus diventa comunque meno pericoloso. E poi le ore da sostenere erano tante, tantissime, e servivano energie oltre alla giusta motivazione».

Che cosa le lascia questa esperienza?

«E’ un segnale che cambia il mondo, che cambia il modo di lavorare. Se prima ci si muoveva su garanzie contrattuali, con tanto di avvocati alle spalle, ora si tornerà alla stretta di mano. E si farà pulizia di tante cose di cui questo virus ha dimostrato l’inutilità. La gente non sarà più disposta a spendere soldi che non sono necessari per arrivare all'obiettivo, sarà necessario essere più puliti, onesti e lineari. Allora l'economia riprenderà con maggior velocità ed etica. Quest’esperienza lascia una ferita indelebile. Sarebbe da stupidi non trarne un insegnamento di vita per gli anni che verranno!».

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