Il vescovo Beschi, la pandemia e quell'ultima sera con don Fausto Resmini
di Paolo Aresi
Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, non si è tirato indietro, anzi, è restato in prima linea in questi due mesi durissimi. Ha visitato ospedali, case di riposo, alberghi dove si trovano i malati di Covid-19 usciti dalla fase più grave. Lo abbiamo visto in televisione guidare la preghiera nella chiesa dell’ospedale, celebrare la messa nella cattedrale deserta. Non lo abbiamo mai sentito così concreto, così vicino alla gente come in queste settimane.
Vescovo Francesco, in questi giorni lei ha deciso di non delegare più tanto i suoi collaboratori, ma di porsi davanti, di offrire una testimonianza diretta della presenza della Chiesa.
«Il nostro Papa dice che i pastori a volte devono stare davanti al gregge, a volte in mezzo e a volte dietro. Io, per mia attitudine, preferisco stare in mezzo al gregge. Ma questa volta ho sentito il dovere di mettermi davanti. Perché ne ho avvertito anche l’attesa, sentivo che mi veniva chiesto, che era importante. E mi sono deciso a prendere delle iniziative».
Sono stati due mesi terribili.
«Ripensando a queste settimane, la sensazione che ritorna di più è quella del dolore. Ho incontrato tante persone, nel rispetto delle norme, delle distanze, ma le ho incontrate. Persone tutte raggiunte dal dolore. In queste settimane io non ho perso i miei familiari, ma un amico che per me era una persona davvero importante, nei primi giorni del contagio. Ma ho sentito il dolore di tutti. Ho sentito le parole, ho letto i messaggi, ho letto le notizie anche di persone che non frequento normalmente. Il loro dolore è diventato il mio, c’è stata una condivisione forte, che spero non si dimenticherà».
Anche la Chiesa bergamasca è stata colpita duramente.
«A un certo punto sembrava un incubo. Ci sono stati giorni in cui don Giampietro, il mio segretario, veniva da me due, anche tre volte al giorno per comunicarmi che un prete era morto. Non mi sembrava vero, una realtà così difficile che mi lasciava stordito. E poi c’era quella condizione così strana: il senso della condivisione del dolore è stato fortissimo, ma non abbiamo potuto in realtà accompagnare i nostri morti, stare accanto ai familiari, celebrare i funerali. Una lacerazione terribile».
Lei è andato al cimitero.
«Sì, è una cosa che ho sentito dentro di me in maniera davvero urgente. Avrei potuto fare tante altre cose, manifestare segni di solidarietà e affetto in molti modi. Invece ho sentito che dovevo andare al cimitero e quando sono stato là ho pensato che era giusto chiamarlo “monumentale” perché in quella solitudine era davvero un monumento al dolore di un’infinità di persone. Io, che non sono nulla, ho pensato comunque di farmi interprete di quel dolore davanti a Dio. Sono andato e ho pregato per tutti i defunti e per le loro famiglie. La mia era una voce piccolissima, ma avvertivo che era assolutamente necessario questo gesto. Io lo potevo fare e io lo dovevo fare».
Come vive la distanza che le persone sono obbligate a rispettare in questo tempo?
«Da un lato c’è la distanza fisica, sicuro. Però dall’altro esiste una vicinanza, un bisogno particolare di sentirsi, di parlarsi, di confidarsi che ha cercato nuove vie praticabili. In questa situazione, la tecnologia ha aiutato, è stata provvidenziale».
Lei è andato anche in ospedale.
«Sì, nel rispetto, sempre, delle norme, ho cercato di essere vicino, come si poteva, senza forzare alcun regolamento. È stata per me una gioia celebrare le funzioni pasquali nella chiesa dell’ospedale, deserta. Ma sentivo il simbolo di quel luogo che è una chiesa davvero pasquale, dove gli artisti hanno tratteggiato il mistero della morte e della resurrezione».
È vero che una sera è sceso dal colle in bicicletta ed è andato a visitare le mense e i dormitori per i più poveri?
«È stato all'inizio dell’epidemia. È una cosa che ho fatto in maniera forse un po’ incosciente perché ancora non c’era coscienza della violenza della malattia. Ci si poteva ancora incontrare, chiacchierare. Io quel momento non lo dimenticherò mai. Sono stato alla Caritas, alla stazione, al Patronato, dalle suore delle Poverelle… Non lo dimenticherò mai anche perché quella sera incontrai anche don Fausto Resmini e don Davide Rota che pochi giorni dopo si ammalarono e vennero ricoverati in gravi condizioni. Don Davide ne è venuto fuori, don Fausto ci ha lasciati. È stata una morte che ha colpito tutti, lui rappresentava qualcosa di così importante per la chiesa bergamasca, non soltanto per gli ultimi o per i carcerati».
Nei giorni scorsi ha incontrato gli ammalati convalescenti dell’hotel Bes di Mozzo.
«Anche questa è stata un’esperienza che non dimenticherò. Io ero fuori e ho iniziato la preghiera e le persone erano affacciate alle finestre, vedevo i loro volti dal basso, i loro occhi. Sono cose piccole, ma hanno valore. Ricordo una signora, su all’ultimo piano, praticamente scorgevo soltanto una corona di capelli bianchi, ma vedevo che con la mano mi salutava. Poi mi hanno detto che quella signora ha perso il marito e tre figli. Quante famiglie sono state devastate dal contagio. Mogli, mariti, figli. Nonni. Terribile».
Ha incontrato anche medici e infermieri.
«Sì. Tutti hanno parlato del loro eroismo, della loro dedizione. Io devo dire che , al di là delle espressioni lette sui media, queste persone hanno agito non soltanto con passione, generosità, competenza, ma anche con compostezza. Ecco, questo mi ha colpito molto. Io ho letto nei loro sguardi, in quello che mi raccontavano, la capacità di restare accanto alle persone non con freddezza, ma senza farsi travolgere dalle emozioni, continuando a restare un punto di riferimento per i malati, un angolo di calma nella tempesta. Questa è stata una grande testimonianza. Ho ascoltato infermieri che mi hanno confessato di essersi spostati di qualche metro da un paziente e di avere pianto da soli perché non ce la facevano davanti a tanto dolore, ma non volevano appesantire ancora di più chi già stava male».
Lei ha mai avuto paura?
«Paura vera e propria no. Il pensiero del contagio possibile sì ce l’ho, certo, ancora adesso. In questo periodo penso alla morte in maniera ancora più frequente rispetto alla normale quotidianità. Tuttavia, da uomo e da cristiano, credo di potere accettare l’idea di morire. Molte persone, soprattutto quelle ammalate o vicine a persone che si sono ammalate, sono state raggiunte nella profondità del loro sentire dall'idea della morte che li ha preoccupati e magari impauriti, ma senza trascinarle nella disperazione».