Addio al padre degli orfani

Adesso chi porterà avanti il Villaggio della Gioia? «Baba Fulgenzio non ci lascia soli»

Giammaria Monticelli e Tiziano Belotti raccontano la loro avventura con il grande missionario di Castel Rozzone: «Ci ha insegnato ad accogliere tutti»

Adesso chi porterà avanti il Villaggio della Gioia? «Baba Fulgenzio non ci lascia soli»
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Mercoledì 9 giugno alle 10 si è tenuto al Villaggio della Gioia di Dar es Salaam, in Tanzania, il funerale di padre Fulgenzio Cortesi, missionario passionista bergamasco nativo di Castel Rozzone. Baba Fulgenzio, come lo chiamavano tutti, è stato il fondatore dei Villaggi della Gioia e della Luce che hanno accolto centinaia di orfani. Dopo la cerimonia, il missionario è stato sepolto al Villaggio della Gioia, come aveva desiderato per restare vicino ai suoi bambini e alle sue suore.

Per dare amore ai suoi figli e continuità alla sua straordinaria opera, il missionario aveva infatti dato vita a una nuova congregazione, le Mamme degli orfani. In Bergamasca Padre Cortesi sarà ricordato domani, domenica 13 giugno, alle 18, all'oratorio di Castel Rozzone e sabato 19 giugno, alle 18.30, all'oratorio di Torre Boldone.

Di seguito pubblichiamo l'intervista con Giammaria Monticelli e Tiziano Belotti che negli ultimi vent'anni sono stati a fianco del grande missionario, morto all'età di 85 anni. 

di Paolo Aresi

Quando si è sparsa la notizia che padre Fulgenzio Cortesi se ne era andato, che era partito per l’altro mondo, c’è stato un momento di incredulità. Perché Baba Fulgenzio, come lo chiamavano i suoi bambini, doveva essere morto da vent’anni. Era il 2000 quando gli fu diagnosticato il primo tumore e la previsione medica non era promettente: si parlava di qualche mese di vita. Allora prese coraggio e tornò dai suoi superiori, padri Passionisti. Fulgenzio aveva sempre sperato di venire mandato in Africa come missionario, ma non lo avevano mai accontentato. Era un brillante comunicatore, uno studioso: i suoi confratelli gli avevano dato la responsabilità dei giornali della congregazione, era diventato giornalista. E insegnante di Latino. Ma la sua passione era l’Africa. Per questo aveva allestito il museo africano a Calcinate, meta di tante scolaresche. Per questo organizzava le adozioni a distanza tra il nostro Paese e le missioni dei Passionisti.

Quella volta, ormai a 64 anni, i suoi superiori lo accontentarono, gli concessero di “andare a morire in Africa”, come lui stesso diceva. Poté partire per la Tanzania. Ma le cose andarono in maniera molto diversa.

Ce lo raccontano due persone di Bergamo, Tiziano Belotti e Giammario Monticelli, che guidano l’associazione onlus di padre Fulgenzio, il “Villaggio della Gioia”, il gruppo che lo ha sempre sostenuto, che ha raccolto i mezzi finanziari per le sue opere.

Padre Fulgenzio stavolta ci ha lasciati per davvero.

«Sì e no. In realtà lui è qui con noi anche adesso. Abbiamo parlato con lui dieci giorni fa, una settimana prima che morisse, era abbastanza in forma. Ci ha parlato dei lavori di costruzione della scuola per ottocento ragazzi al Villaggio della Luce. Le opere sono cominciate a fine ottobre del 2020 e ora sono arrivate al secondo piano. E poi ci ha parlato delle finiture per la casa del noviziato delle sue suore, un luogo appartato dove le ragazze trascorrono l’ultimo anno, prima di pronunciare i voti. È la congregazione delle “Mamme degli orfani” che lui ha fondato nel 2006».

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Giammaria Monticelli

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Tiziano Belotti

Chi era padre Fulgenzio?

«Era un sacerdote Passionista bergamasco. Quando nel 2000 ottenne di potere raggiungere la missione in Africa, fu felice. Pensò a un progetto culturale che creasse un ponte tra Italia e Africa, ideò la “capanna della comunicazione”. Ma un giorno, subito nelle prime settimane, incontrò una bambina e le accarezzò la testa. Quella bambina bussò una mattina alla sua porta e semplicemente gli disse: “Grazie, Baba”. Baba sta a significare papà. Quel momento cambiò la vita di Fulgenzio. Abbandonò il progetto culturale e decise che suo compito doveva essere aiutare gli orfani».

E che cosa fece?

«Pensò di fondare un villaggio per gli orfani, e si mise in azione. Lo chiamò semplicemente “Il villaggio della gioia”. Non voleva che fosse un orfanotrofio. Per questo ideò delle case-capanne, che ospitassero una comunità di dieci-quindici bambini, con una mamma. Voleva ricreare lo spirito della famiglia. Tanti di questi bambini ha dovuto adottarli direttamente lui, così si è trovato “papà” di decine di ragazzini, mi sembra che arrivò a duecento. Adesso alcuni sono ormai adulti...».

Doveva morire in pochi mesi…

«Invece da allora sono passati più di vent’anni. Lui diceva che l’Africa era la sua medicina. Però si è dovuto curare tanto e ha subito diverse operazioni... Purtroppo con la vicenda del Covid non ha potuto tornare per i controlli necessari, gli mandavamo noi i pacchi di medicine... Sì, l’Africa è stata decisiva, ma anche le cure lo hanno certamente aiutato in questi anni».

Il Villaggio della Gioia dove si trova?

«A Dar Es Salaam, la vecchia capitale della Tanzania, che resta ancora oggi la città più importante. Gli orfani sono molti, tanta infanzia ha bisogno di aiuto. Al Villaggio ci sono ottanta dipendenti, oltre alle suore. All’interno c’è una scuola che ospita 1800 alunni dalla materna fino alle superiori. Tanti sono orfani interni al Villaggio, altri vengono dalla città. Nel 2018 il Baba ha avviato la costruzione di un secondo villaggio, quello della Luce, a Morogoro, una città di due milioni di abitanti, in un’altra diocesi della Tanzania. È già stato inaugurato. Per ora funziona l’asilo per 150 bambini, di cui quaranta sono orfani. Stiamo completando la scuola primaria, siamo in ritardo e padre Fulgenzio era preoccupato. Avevamo ottenuto l’aiuto di una banca, ma poi ci sono stati dei contrattempi a livello di burocrazia, così avevamo bisogno di trecentomila euro per andare avanti».

E quindi?

«E quindi la Provvidenza esiste, perché un imprenditore di Roma ha chiamato padre Fulgenzio e gli ha detto che aveva un’offerta da fare. Centomila euro subito e duecentomila dopo un po’. I lavori possono ripartire».

Caspita.

«Sì, ci sono delle cose che davvero fanno pensare. Lui parlava sempre delle sue imprese citando il “socio di maggioranza”. Il socio era Dio».

Padre Fulgenzio era una persona tollerante.

«Molto. Lui accettava tutti. Alla mattina venivano recitate due preghiere, una cristiana e una musulmana. Alle feste invitava tutti, il vescovo e l’imam. In questi vent’anni ci sono stati momenti difficili, persone che hanno tradito la fiducia che gli era stata data. Lui è intervenuto, ma non ha mai portato rancore».

Voi come lo avete conosciuto?

«Era l’inizio del Duemila e ci trovavamo a un corso di formazione per consulenti del lavoro, che è il nostro mestiere. Uno dei partecipanti ci disse che si era trovato per turismo in Africa, che aveva perso l’aereo in Tanzania e che aveva casualmente incontrato il padre Fulgenzio, il quale gli aveva illustrato un bellissimo progetto». (...)

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