L'intervista

Alfonso Modonesi: «La fotografia è interpretazione, non è mai verità assoluta»

Classe 1941, bergamasco doc, è uno dei più conosciuti e apprezzati fotoreporter al mondo. «A L'Europeo prendevo 150mila lire al giorno, con la moda un milione»

Alfonso Modonesi: «La fotografia è interpretazione, non è mai verità assoluta»
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di Bruno Silini

Indubbiamente, Alfonso Modonesi è un Maestro del reportage, un modo di intendere la fotografia che nasce in America nel 1920 e che rappresentava la vita di tutti i giorni dei cittadini statunitensi.

Il reportage esplode durante il mandato di Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca, agli inizi degli anni Trenta, e prosegue indisturbato fino agli anni Settanta. Fotografie firmate da autentici fuoriclasse: Margaret White, Dorothea Lange, David Seymour, Ben Shahn, Gordon Parks, Carl Sandburg, Robert Capa, William Eugene Smith. Pubblicano su Times, Life e Look. Quest’ultima “tirava” sette milioni e mezzo di copie.

In Italia, invece, cosa succede dal punto di vista fotografico?

«Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale vige la censura fascista. Il regime non vuole che venga documentata la realtà. Fotografare contadini e operai, come succedeva in America, significava fomentare istanze sindacali che avrebbero disturbato il Duce. Invece del realismo, si preferisce il pittorialismo, ovvero la rappresentazione di oggetti, di ritratti. È la cosiddetta fotografia artistica e sofisticata. Essendo, dunque, vietata categoricamente qualsiasi rappresentazione della verità, ci siamo trovati, oggi, a non avere nessun documento che riguardasse questo periodo».

Poi le cose sono cambiate?

«Finita la guerra, ritornano le condizioni che rendono il reportage interessante anche in Italia. Attraverso i circoli fotografici spiccano professionisti del calibro di Paolo Romani, Gianni Berengo Gardin, Paolo Monti, Fulvio Roiter e Italo Zannier, il primo a occupare una cattedra di fotografia in un’università italiana».

A Bergamo?

«Sicuramente spicca Pepi Merisio, poi Carlo Leidi, Alessandro Brembilla. Io sono entrato nel Foto Club Bergamo nel 1961. Ero un appassionato fin da ragazzo. In quel periodo, il premio italiano più importante era il premio Fermo, organizzato da Luigi Crocenzi. Nel 1964 il premio Fermo lo vinco io. Avevo 23 anni. L’anno dopo mi tocca la stessa fortuna».

Come cambia la sua vita?

«Vado a lavorare come libero professionista a L’Europeo e alla Rizzoli Press. Quella collaborazione, per la verità, mi ha lanciato. La cosa straordinaria era che un fotografo dilettante appartenente a un circolo di provincia diventasse professionista».

Perché la definisce straordinaria?

«Pensi agli Stati Uniti. Là i reporter arrivavano dalle università. Studiavano fotografia e si laureavano in fotografia. Era una professione riconosciuta e ambita. Da noi era tutto diverso. Quando dissi a mio padre che rinunciavo a studiare Chimica per intraprendere la carriera fotografica non la prese bene. Mi disse che sarebbe venuto a farsi fare le fototessere da me così da racimolare qualcosa da mangiare».

Come siete venuti a conoscenza del lavoro dei reporter americani e delle riviste sulle quali pubblicavano?

«Le racconto un aneddoto (...)

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