Don Davide Rota: «La depressione ha intaccato anche la nostra Chiesa bergamasca»
Ha 75 anni. È stato missionario in Bolivia e parroco a Mozzo. È il superiore del Patronato San Vincenzo, sempre accanto agli ultimi
di Bruno Silini
Non prende mai vacanze da quando è al Patronato San Vincenzo in via Gavazzeni, a Bergamo. Due, tre giorni al massimo in estate. Don Davide Rota di solito non abbandona questo posto. Qualche volta va in Sud America. Quest’anno è andato quattro giorni in Africa a inaugurare un seminario che hanno ricostruito.
Non è stanco di vivere e lavorare in questa enclave africana a Bergamo?
«Ma no, ma no. Non ti stanca questo posto. Basta non fare troppi sogni a occhi aperti. Se ti aspetti troppo, ti illudi, rimani deluso e ti stanchi. Ma se sai come stanno le cose, le accetti, abbassi le tue pretese e va bene quello che arriva».
Quanti ospiti avete?
«Le presenze sono all’incirca 300 e sono divise in tre parti. Una (circa 50), della quale io non mi sono mai occupato perché non sono molto d’accordo, è quella dell’accoglienza sovvenzionata, in mano alla cooperativa del Patronato: il cosiddetto Cas (Centro di accoglienza straordinaria). Sono quelli che ti manda lo Stato insieme ai soldi per mantenerli».
Perché non è d’accordo?
«Perché io non voglio i soldi dello Stato. Questo tipo di accoglienza è guidata da regole statali che escludono quelli più bisognosi».
La seconda parte?
«È costituita da quelli accolti, ma non sovvenzionati dallo Stato: circa 150 persone. Hanno il permesso di soggiorno e anche un contratto di lavoro. Vengono ospitati, ma devono pagare qualcosa. E questo permette anche al Patronato di avere dei fondi per andare avanti. Abbiamo calcolato che ogni persona costa mille euro all’anno (cibo escluso). Per cui, se si accolgono 300 persone sono trecentomila euro a stagione, senza contare le spese di luce, acqua, gas... E queste qualcuno le deve pagare».
La terza parte?
«La chiamiamo la bassa soglia. Sono quelli che entrano al Patronato e non hanno né permesso né un lavoro. Di questi me ne occupo direttamente io e sono un centinaio. Per quelli bisogna trovare i fondi».
E dove va a prenderli?
«Arrivano. Arrivano».
Alcuni psicologi dicono che alla tentazione di lasciare una responsabilità faticosa bisogna rispondere “sì”, magari portandosi dietro qualche cerotto se le cose poi non vanno bene. È d’accordo?
«Gli psicologi non ammettono o non tengono conto della forza della fede, che ti permette, anche di fronte a situazioni molto pesanti, di affrontarle. Io ho sempre fatto così. Nei miei 51 anni di prete, trenta li ho passati in situazioni di marginalità grave: prima in Bolivia e adesso qui. A dar retta agli psicologi, dovrei essere “saltato” del tutto. Ma ce la faccio, riesco a trovare persino i soldi e a mantenere anche un buon rapporto con tutta questa gente. È come se uno non sapesse di avere delle energie e, non sapendo che ci sono, non le usa. Io so che ci sono e le uso».
C’è un quadro che le viene in mente e che rappresenta la società attuale?
«L’urlo di Munch, ma mi pare un po’ scontato. Invece, mi piace pensare che la società attuale sia quella dei cubisti, tipo Braque o Picasso, dove l’uomo è colto in tutte le sue dimensioni, ma in realtà sembra fatto a pezzi e ricomposto secondo regole strane. Quando la società pretende di spiegare tutto e non ha un motivo centrale per spiegare le cose è costretta a restituire un’immagine dell’uomo scombinata, dove non riesci mai a capire dove comincia e dove finisce. Si è perso il punto aggregante, che spiega il senso e che dà senso alla realtà».
Oggi qual è il peccato più radicato nella società?
«Il fatto che il peccato non è più peccato. Assume di volta in volta il nome di una patologia. Si tenta di spiegare il male in base a componenti di tipo patologico che rivelano un disagio, una sofferenza. Ma non è così. Il male, come il bene, non è spiegabile e non può essere inquadrato in una patologia. Questo gioco della psicologia di spiegare ogni cosa in base a un’altra conduce a non avere più colpevoli. E quando non c’è più colpa, non c’è più peccato. Nessuno chiede più perdono. Cent’anni fa, un cristiano geniale come Charles Péguy diceva che oggi neanche i peccati sono più cristiani. E aveva ragione».
Come sta la Chiesa di Bergamo?
«La vedo un po’ in affanno, come tutte le chiese del resto. La Chiesa è dentro una società destrutturata nei suoi valori, che ha sradicato la fede dal cuore dell’uomo. Le guerre fanno paura, ma sono meno pericolose della destrutturazione valoriale che oggi domina la società occidentale».
Destrutturazione?
«Il decremento demografico, l’amore sfrenato per (...)
Don Davide Rota è un mito. Io lo avevo come Parroco quando era a Mozzo. Oltre che la sua parrocchiana, ero anche la sua segretaria, chierichetta e catechista. Senza nulla togliere a Don Andrea Cuni Berzi, Don Andrea Perico e Pedretti, Don Claudio Avogadri e al Seminarista Fiorendi e al diacono Sobatti, il don è in gambissima e da ammirare. Don! Avanti tutta, io sono dalla tua parte
Il peccato assume la "forma di una patologia". Ma per favore! Banalizzare così la salute mentale, screditando secoli di progresso medico e scientifico.
Io al patronato ci sono passato! Queste sono tutte menzogne, perché tutti loro ci guadagnano sull'accoglienza! Ecco perché anno sfrattato i poveri italiani per fare posto ai neri che rendono molto di più!
Ho conosciuto don Davide più di 20anni fa ha battezzato i miei nipoti e con me è sempre stato un grande sacerdote,
Ricordo un tempo in cui le sculacciate dei genitori raddrizzavano i giovani virgulti che nell'esuberanza dell'età faticavano a trovare i giusti equilibri, a capire i veri valori della vita. Don Davide è un genitore che non ha paura dei giudizi di "chi ne sa di più", un genitore che non disdegna la "sculacciata" che ti fa riflettere e se ne sai cogliere l'essenza (non sono bambini quelli a cui si rivolge) puoi cambiare la tua visione del mondo e della tua vita. Ce ne fossero di Don Davide... (in particolare non solo tra i laici).