«Il cuore di tutto è il bilanciere»

Giuseppe Plebani, l'orologiaio di via Tasso che da sessant'anni aggiusta il tempo

Dagli orologi meccanici a quelli elettronici («Tutta colpa della Luna»), fino al fenomeno virale degli Swatch. E quella rapina nella quale reagì rischiando la vita

Giuseppe Plebani, l'orologiaio di via Tasso che da sessant'anni aggiusta il tempo
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di Paolo Aresi

«Il cuore di tutto è il bilanciere. È una ruota che oscilla avanti e indietro grazie a una molla. È come il cuore di una persona. L’energia viene accumulata attraverso la carica manuale o grazie a una pila o in modo automatico grazie ai movimenti continui del polso. Sono gli orologi meccanici che sono nati secoli fa, nel Trecento, credo, orologi composti da ruote, ingranaggi talmente piccoli che non si può effettuare una riparazione senza un ingrandimento».

Giuseppe Plebani ha l’espressione seria, attenta, per farlo sorridere bisogna parlargli della Luna. O dei figli. Fa questo lavoro da sessant’anni, quasi. Esattamente dall’estate del 1963. Ha fatto a tempo a entrare nel mondo degli orologi quando ancora imperavano quelli meccanici, ma quelli elettronici stavano sull’uscio. Colpa della Luna.

Colpa della Luna, signor Plebani?

«Sì, in un certo senso. Credo che l’elettronica abbia subito una forte accelerata per le missioni spaziali. Quando io ho cominciato a lavorare in bottega avevo quattordici anni e la gara spaziale fra russi e americani era in pieno svolgimento, in maniera frenetica. L’elettronica, i computer divennero elementi importantissimi e anche gli orologi ebbero delle conseguenze. Di fatto i primi orologi al quarzo apparvero a inizio anni Settanta, quando eravamo appena arrivati sulla Luna. Avevano i numeri anziché le lancette e brillavano mediante diodi rossi...».

Oggi lei si trova in via Tasso, ma è soltanto l’ultima tappa.

«Sono nato a Calcinate nel 1949, i miei erano bidelli e custodi della scuola. Poi ci trasferimmo a Pedrengo. A quattordici anni trovai un posto dall’orologiaio Salvi di Borgo Palazzo. Andavo in bicicletta quattro volte al giorno perché c’era la pausa pranzo. Feci un anno da lui, poi mi trasferii da un orafo di via San Bernardino, Battistoni. Il fatto è che l’arte orafa mi piaceva di più. La possibilità di modellare qualcosa di mio, di potere essere creativo...».

Era una Bergamo diversa.

«Molto diversa. Anche solo quello che le ho detto: andavo avanti e indietro in bicicletta da Pedrengo, quattro volte al giorno. Ed era normale, non è che fossi eroico. Sacrifici che facevano parte della vita quotidiana. Ma oggi chi lo farebbe? Oggi si andrebbe al bar, magari si userebbe il motorino... Comunque da Battistoni imparai a riparare anelli, orecchini, braccialetti. Prendevo 15 mila lire al mese. Per confronto, un operaio non specializzato aveva stipendi che si aggiravano sulle 70 mila lire, forse mille e duecento euro di oggi. Pochi soldi, insomma, ma allora tutti capivamo che bisognava imparare il mestiere, che i sacrifici erano necessari per avere un futuro. Allora si diceva “avvenire”. I genitori dicevano: “È per il tuo avvenire”. Una parola che si è persa. Alla sera, a casa, andavo avanti a lavorare: riparavo i gioielli di persone che conoscevamo, guadagnavo qualcosa in più».

Ha imparato a fare anche l’orafo.

«Sì, ma poi è arrivato il servizio militare, Falconara Marittima e poi Bologna, infermiere all’ospedale militare. Ho imparato a fare le punture. Quindici mesi, più o meno persi. Ma il servizio militare a qualcosa serviva, perlomeno ti staccavi da casa, dovevi affrontare da solo una realtà non facile. Così ti costringeva a crescere. Qualcosa del genere sarebbe importante anche oggi. È una questione educativa».

Poi è tornato.

«Sì, mi sono iscritto a un corso di orologeria a Milano, per due anni andavo avanti e indietro, due o tre volte la settimana, la sera. Ho ricominciato a lavorare a casa e poi ho aperto il mio primo laboratorio, era in un interno di via Moroni. Lavoravo per gli altri, per i negozi, non con il pubblico. A quel tempo la via Moroni nella sua parte storica era poco raccomandabile, era una vita della “mala”, come si diceva. Ma io non ebbi mai problemi, ero un artigiano, stavo in un interno. Misi le grate alle finestre. Riparavo orologi per i negozi, ma facevo anche qualcosa di oreficeria, degli anelli con le pietre preziose. Poi aprii in via San Giorgio nel 1977 e, nel 1983, in via Pignolo».

Dove andò in via Pignolo?

«Andai in un negozio di orologi che era condotto da un certo Bosio, il quale andava in pensione. Mi conosceva, facevo le riparazioni per lui e mi chiese se ero interessato a subentrargli. Voleva dire aprirsi alla clientela, diventare anche commerciante. Accettai».

Pignolo in questi quarant’anni è cambiato.

«Sì, si è spopolato, è invecchiato. È diminuito il numero di famiglie. Adesso sembra ci sia una ripresa di interesse della città, gente che passeggia, che cammina, che arriva per l’aperitivo. Allora c’erano ancora tanti bambini, ricordo le ragazze che andavano a scuola dalle Canossiane... Il negozio era partito bene, aveva una buona clientela e io continuavo a lavorare anche per altri. Facevo sia orologeria che oreficeria. Avevo due ragazzi apprendisti, uno adesso gestisce un negozio a Paladina, l’altro verso Cremona».

Anche gli orologi seguono le mode.

«Certo. Mi ricordo il periodo degli Swatch. Incredibile. Gente che ne comprava uno al mese perché faceva la collezione. Erano della Omega, erano svizzeri. Materiale di facile consumo. Fu una moda virale, diremmo oggi. Negli anni Settanta tutti volevano l’orologio elettronico, il Casio con i numeri digitali, sembrava che i classici meccanici della Longines o della Lorentz tramontassero. Invece poi si sono ripresi. Ma è la vita, un po’ in tutti i campi è così. Alla fine viene fuori chi vale davvero. Comunque io imparai ad aggiustare anche gli orologi elettronici, non ci voleva molto, in fondo. Quelli meccanici sono assai più complessi». (...)

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