L'intervista

Norma, intervista a cuore aperto: «La vita con mio padre, il grande Felice Gimondi»

«Capii che era uno speciale perché alle elementari mi chiedevano la sua foto con l’autografo». «Per lui ogni giorno si doveva ripartire da zero»

Norma, intervista a cuore aperto: «La vita con mio padre, il grande Felice Gimondi»
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di Bruno Silini

Fu al trionfo al Tour de l’Avenir del 1964 che Felice Gimondi capì di essere un fuoriclasse che avrebbe dato tanto al ciclismo. Vinse sbaragliando i pronostici, perché nessuno si aspettava la sua vittoria. Quella gara fu anche una prova del nove: se non avesse vinto, secondo le intenzioni del papà Mosè (camionista), avrebbe dovuto continuare a lavorare come apprendista postino e abbandonare il ciclismo.

E lei, Norma, quando capì che suo padre era uno speciale?

«Sono stati gli altri a farmi capire che era un papà diverso. Frequentavo le elementari a Paladina e i compagni di classe, piuttosto che i loro genitori, mi chiedevano la cartolina di papà con l’autografo. Che fosse speciale si capiva anche in primavera, quando di lunedì si tornava a scuola e gli altri compagni raccontavano alla maestra di essere stati al lago o in montagna con i genitori, mentre per me queste esperienze mancavano, perché mio papà era in giro per le gare. Passavano anche cinque settimane prima che potessi rivederlo».


Caratterialmente somiglia a suo padre?

«No, credo che lui fosse molto più duro di me».

Era severo?

«Decisamente».

Da ciclista di successo ad assicuratore. Perché inventarsi un nuovo lavoro? Immagino che non fosse strettamente necessario.

«Aveva un senso del dovere infinito, che condivideva con mia madre. Stimolato da Vittorio Adorni, suo amico, compagno e direttore sportivo, decise di affrontare lo studio e l'esame per diventare agente assicurativo, tanto che si iscrisse all’albo quando ancora correva. Aveva il concetto che nella vita non si è mai arrivati, che c’è sempre un domani e che il giorno dopo è doveroso svegliarsi e rimettersi a lavorare come se il giorno prima non si fossero raccolti grandi risultati».

Felice Gimondi

Quindi non si è mai seduto sugli allori?

«Mai, mai, mai. È stato un grande esempio di vita sotto questo profilo».

L’addio all’agonismo come avvenne?

«Nel 1976 vinse il suo terzo Giro d’Italia, il suo ultimo grande trionfo. Aveva 34 anni e all’epoca era già considerato “un vecchio”. Da lì in avanti, secondo me, si rese conto che anche le forze fisiche e psicologiche erano calate. Anche le privazioni che si imponeva a livello alimentare (niente gelato, niente acqua gasata) venivano vissute diversamente rispetto a dieci anni prima. Di certo, attaccare la bicicletta al chiodo fu uno stravolgimento (...)

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