Braccio destro di Vallanzasca

Storia di Rossano Cochis, ovvero il bandito trevigliese «che ha buttato via la vita»

Soprannominato “Nanu” ha collezionato oltre quattrocento rapine e poi sequestri di persone e un omicidio. Trentasette anni di galera. È morto nei giorni scorsi d'infarto in mare a Vieste

Storia di Rossano Cochis, ovvero il bandito trevigliese «che ha buttato via la vita»
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di Angela Clerici

Chi era davvero Rossano Cochis, trevigliese, morto settimana scorsa nel mare di Vieste per un infarto? Chi era davvero Rossano Cochis che negli anni Settanta - i famigerati anni di piombo - assaltò banche e gioiellerie, che fu il braccio destro di Vallanzasca? Chi era quell’uomo che i giudici hanno condannato a innumerevoli anni di galera e che ne ha scontati trentasette dietro le sbarre?

Non è facile rispondere. Certo, Cochis è stato un uomo della malavita, un rapinatore spietato. La sua specialità, il mitra. Ma fu anche l’uomo che nel 2001 andò dai ragazzi della comunità don Milani di Sorisole, quella di don Fausto Resmini e che si rivolse loro, pure ragazzi problematici, con queste parole: «Non buttate la vita come ho fatto io». Non sprecatevi, perché la vita è preziosa e ci sono tante cose importanti che si possono fare. Questo disse Cochis quel giorno. Cose importanti che possono renderti felice, perché la felicità consiste nella consapevolezza di avere costruito qualcosa di buono. Nient’altro. Tutto il resto è una fiamma presto spenta.

Un tipo irrequieto

Rossano Cochis era un uomo di personalità. Un irrequieto, uno che non era contento della vita normale, che non era tagliato per la ripetitività della vita quotidiana “borghese”. Padre ferroviere e madre casalinga, come tutti i ragazzi della sua età, Rossano passava il tempo giocando a calcio e sognando di fare il paracadutista. Invece iniziò a lavorare come rappresentante di una ditta di grissini, a metà degli anni Sessanta. Non era la vita per lui. Lui, che sognava di fare il parà, non poteva vendere grissini. Cochis aveva una personalità che cercava qualche cosa di forte, di diverso. Avesse incontrato altre persone chissà, magari sarebbe andato a fare il missionario in Bolivia. Invece entrò nel giro della mala trevigliese e non coronò mai il sogno dei suoi nonni che lo volevano dietro uno sportello, in banca. Come ha già scritto qualcuno, in banca Rossano Cochis ci entrò, ma con una calibro 6,35 nella mano, insieme a un amico, e fu la sua prima rapina.

La “banda dei trevigliesi”

Cochis era considerato trevigliese sebbene fosse nato a Carpenedolo, in provincia di Brescia. Ma da ragazzino i suoi si erano trasferiti a Treviglio, in via Montegrappa. Dopo il periodo dei grissini, entrò nella malavita della zona, nella “banda dei trevigliesi” e quindi finì in quella di Renato Vallanzasca. Alla fine della carriera, Cochis ha collezionato un ergastolo e duecento anni di carcere. È stato condannato per quattrocento rapine, alcuni sequestri di persone e anche per omicidio. Nel 1976 fuggì dal carcere di La Spezia insieme a Vallanzasca, il “bel René”. Decisero di liberare un po’ di vecchi e fedeli compagni. E così assaltarono il carcere di Lodi e liberarono Antonio Colia e poi quello di Lecco per riprendersi Antonio Rossi; tutti e due facevano parte della banda della Comasina, che imperversava a Milano e che rivaleggiava con il clan di Francis Turatello. Alla guida della banda c’era Renato Vallanzasca, il bel René, mentre Colìa era detto “Il Pinella”. Due componenti persero la vita in conflitti a fuoco con le forze dell’ordine: Mario Carluccio morì a Milano in piazza Vetra, Antonio Furato al casello autostradale di Dalmine (in quell’occasione furono uccisi due agenti della polizia stradale). Quest’ultimo scontro segnò anche l’inizio della fine per la banda. Lo stesso Vallanzasca venne ferito a una gamba in maniera piuttosto seria, venne catturato alcuni giorni dopo.

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