Intervista al governatore Fontana: un anno di Covid tra sconforto, speranza e «l'unico errore»
«Il governo Conte non ci ascoltava e allora ho chiamato Mattarella. Ho fatto presente che qui era un disastro, ma nessuno a Roma lo capiva. Ho la coscienza pulita. Su Aria Spa abbiamo sbagliato, chiedo scusa, ma è stato il solo sbaglio»
di Ettore Ongis e Andrea Rossetti
Arrivando a Palazzo Lombardia, nel cuore di Milano, tutto sembra essere al suo posto: le auto in fila ai semafori, le persone sedute ai tavolini esterni dei bar. Una normalità ritrovata, ma in precario equilibrio sul filo della pandemia.
Il presidente Attilio Fontana ci accoglie nel suo ufficio al trentacinquesimo piano dell’imponente cattedrale istituzionale fatta erigere tra il 2007 e il 2010 dall’allora governatore Roberto Formigoni. Un po’ di stanchezza traspare sopra la mascherina, ma Fontana appare tranquillo. «I numeri stanno gradualmente, anche se lentamente, andando sempre meglio - commenta -. Siamo contenti, siamo tornati in zona gialla finalmente».
Ora bisogna rimanerci.
«Sì, infatti ai cittadini chiedo di stare attenti. Non possiamo permetterci un passo indietro. Le regole vanno rispettate e, se ciò avviene, sono certo che si possa fare quasi tutto».
Ha già fatto il vaccino?
«No, vado settimana prossima. Prima non ho trovato orari che mi andassero bene».
Intanto la campagna vaccinale finalmente viaggia.
«Sta andando molto bene. E potrebbe andare ancora meglio se arrivassero più dosi».
In provincia di Bergamo si è arrivati a ben 18 mila somministrazioni al giorno.
«È la dimostrazione che, se volessimo, potremmo fare ancora meglio. Ieri in Regione abbiamo fatto centodiecimila vaccinazioni, ma poi dovremo rallentare, perché il rischio è di trovarci in difficoltà se le consegne ritardassero. La macchina però funziona e abbiamo molti hub che stanno lavorando solo al cinquanta per cento del loro potenziale».
In queste settimane sta visitando molti punti vaccinali. Cosa la sta colpendo maggiormente?
«Sicuramente l’entusiasmo e la voglia di lavorare del personale. È tutta gente che è sotto pressione da più di un anno, eppure hanno un atteggiamento bellissimo. È davvero un risultato eccezionale di volontari, infermieri, medici».
Si tanno già vedendo i risultati delle vaccinazioni?
«Decisamente sì, basti vedere la situazione nelle Rsa o tra il personale sanitario. Ma anche i numeri del contagio nei Comuni al confine tra Bergamo e Brescia».
Il cosiddetto “cordone sanitario”. Quella è stata una grande idea.
«Mi fa piacere lo ammettiate. Siete i primi a dirlo. Anzi, finora aver vaccinato lì prima che da altre parti ci ha portato solo critiche...».
In che senso?
«Tra le categorie delle persone finora vaccinate, c’è anche la voce “altri”. E subito è partita la corsa ai “furbetti” del vaccino. In realtà, si tratta delle vaccinazioni effettuate in quella fascia di territorio, dove abbiamo vaccinato tutti, indistintamente, purché sopra i 60 anni».
È indubbio, però, che all’inizio ci siano state categorie che hanno sfruttato la situazione.
«Allora non c’erano indicazioni governative. Non si procedeva per fasce di età, ma per categorie. Questo ha creato qualche squilibrio, ma non c’era nulla di irregolare. In più non va dimenticato che in quel momento AstraZeneca era utilizzato solo per persone sotto i 55 anni. Margine, quindi, c’era».
È passato un anno, circa, dai giorni più cupi. Come sono stati questi dodici mesi?
«È stato un anno duro, molto impegnativo, che ha stravolto le nostre vite e che rischia di cambiarle per sempre. Un anno nel quale siamo finiti in un ciclone che nessuno aveva annunciato, che nessuno sapeva come si sarebbe evoluto e al quale nessuno sapeva come reagire. Non c’erano protocolli, non c’era preparazione, non c’era niente».
Nel complesso, come giudica l’operato della Lombardia?
«Fatte queste premesse, penso che in Lombardia sia stato fatto più di un miracolo. Purtroppo all’inizio sapevamo poco, troppo poco».
Si è mai chiesto “chi me lo ha fatto fare?”.
«No, anche perché non ho avuto nemmeno il tempo di pensarci».
Si pente di qualche decisione presa?
«No. Ho la coscienza pulita. Al massimo, ogni tanto subentra solo un po’ di stanchezza».
Ha perso degli amici nella pandemia?
«Purtroppo sì, e anche diversi conoscenti».
Non ha mai avuto paura?
«Paura no, a essere sincero. Sono stato preoccupato, ma non ho avuto paura. Anche perché, fortunatamente, non ho fatto il Covid. Per questo ringrazio il Padre Eterno. Anche perché sarei in un’età a rischio...».
In altre parole, ci sta dicendo che non ha mai pensato, in questi mesi, di gettare la spugna?
«Mai! Ci sono stati momenti di sconforto, questo sì. Diversi momenti di sconforto. Ma non ho mai pensato di gettare la spugna. Se lo avessi fatto, non avrei più avuto il coraggio nemmeno di andare al bar».
Quali critiche l’hanno ferita di più?
«Sicuramente quelle che hanno legato il mio operato alla morte delle persone. Le trovo ingiuste, qualcosa di umanamente inaccettabile».
Pensa di ricandidarsi nel 2023?
«Non ho ancora avuto modo di pensarci. Davvero, mi creda. I primi due anni di mandato mi sono divertito, questi ultimi dodici mesi invece sono stati durissimi. Quindi non lo so, sinceramente. Al momento, l’unico pensiero che ho è sconfiggere questo cazzo di virus».
Politicamente, però, ha ricevuto e continua a ricevere molte critiche per la gestione della pandemia. C’è chi chiede una Commissione d’inchiesta.
«Guardi, l’ho già detto: non ho problemi, non abbiamo nulla da nascondere».
Intanto la Lombardia è sul banco degli imputati.
«Strumentalmente, direi».
Ne è sicuro? Degli errori ammetterà che sono stati commessi...
«Tipo?».
Sui numeri, ad esempio. Noi di Bergamo non possiamo dimenticare come, nei primi mesi, il numero dei morti fosse enormemente sottostimato. Ci sembrava di essere presi in giro quando veniva diffuso il bollettino quotidiano.
«Posso capire, ma noi abbiamo sempre seguito le indicazioni ministeriali circa la raccolta e la diffusione dei dati. Non so se ricorda, ma allora non erano neppure consentite le autopsie...».
Ricordiamo bene. È stato un medico dell’ospedale di Bergamo, il dottor Gianatti, a “violare” quel protocollo.
«Esattamente. Ed è stato grazie a uomini come lui che abbiamo trovato, a un certo punto, delle contromisure. Purtroppo, però, è stato perso del tempo».
Sui dati, però, c’è sempre stata poca trasparenza.
«Non sono d’accordo. Noi sin da subito abbiamo fornito tutti i dati che avevamo».
Allora era impossibile trovarli o riceverli. A un certo punto, sparirono quelli dei contagi nei singoli Comuni.
«Anche lì seguimmo un’indicazione di Roma. Ci dissero che, per questioni di privacy, non si potevano dare quei dati perché, soprattutto nei Comuni più piccoli, sarebbe stato come dire chi erano gli infetti… Alle Prefetture, però, abbiamo sempre fornito tutte le informazioni. Poi è vero che sono spesso cambiate le modalità con cui noi dovevamo dare le comunicazioni, e questo forse ha creato confusione in un momento in cui ce n’era già molta».
A proposito di Roma: anche i continui scontri con il Governo precedente non hanno aiutato. Anzi, per i cittadini erano esasperanti.
«Immagino, ma io sono sempre entrato nel merito delle questioni. Non sono mai stato ideologico. Oggettivamente, non potevo accettare sempre tutto senza fare valere le nostre ragioni. Ho sempre cercato di essere molto istituzionale, solo una volta non ce l’ho proprio fatta. Perché bisogna saperla tutta la storia».
Ce la dica allora.
«A un certo punto mi sono dovuto rivolgere al Presidente della Repubblica per avere delle risposte. Per fare capire come stavano andando le cose qui in Lombardia. Ho fatto presente che era un disastro, ma nessuno a Roma lo capiva, nessuno ci ascoltava. Ho chiesto di mandare qualcuno a controllare. A Conte chiesi quasi subito di chiudere tutto perché qui era un disastro».
E lui?
«Prese tempo».
Si riferisce al caso della mancata zona rossa in Val Seriana?
«Anche. Mi pare appurato, ormai, che lì fu il Governo a decidere di aspettare, aspettare, aspettare... Io come potevo chiudere? Non controllo neppure la Polizia Locale».
Al riguardo c’è anche un’inchiesta in corso.
«Sono certo che la Procura di Bergamo farà il suo lavoro. Ma io non sono indagato».
No, lei è indagato per il “caso camici”.
«Sì, ma sono sereno. So quel che ho fatto e non ho preoccupazioni. Lascio che i magistrati facciano il loro lavoro».
Tornando al suo rapporto con l’ex premier Conte, quale fu la cosa che la fece più arrabbiare?
«Il continuo procrastinare. Ogni giorno facevamo presente le necessità dei nostri ospedali, degli operatori. E la risposta era sempre: “Ce ne occuperemo”. Poi, quando finalmente mandavano le mascherine, erano fatte di carta, robe imbarazzanti. Come potevo non incazzarmi?».
La strage nelle Rsa non fu però colpa del Governo.
«Se fa riferimento alla famosa delibera, bisogna fare chiarezza. Innanzitutto, la richiesta di ospitare malati Covid nelle Rsa non era rivolta a tutte le oltre settecento strutture lombarde, ma solo a quelle che presentavano determinati requisiti, ovvero, alla fine, meno di una ventina. Le condizioni erano chiare. Tant’è che, un mese dopo, a fine aprile, quella delibera è stata assunta praticamente identica anche dall’Istituto superiore di sanità come modello».
Non pensa che fu, a prescindere, una mossa rischiosa?
«Bisogna risalire al motivo di quella scelta: dovevamo liberare gli ospedali. Erano saturi, la situazione era veramente complicata».