I bergamaschi del 2018

I magnifici bergamaschi sono certamente più di sette, ma noi ci fermiamo qui, a una semplice carrellata giornalistica. Sono persone assai diverse fra loro, ma ciascuna ha realizzato qualche cosa di eccezionale. Tra i magnifici abbiamo inserito due preti: don Fausto Resmini e don Davide Rota. Tutti e due sono schierati dalla parte degli ultimi, aiutando centinaia di poveri e sbandati, in realtà aiutano tutti noi. Il loro impegno assorbe la disperazione, mitiga il disagio, neutralizza la rabbia. Bergamo dovrebbe fare loro un monumento. Poi c’è lo “scopritor famoso”, Giovanni Valagussa, che ha “regalato” un Mantegna alla città. Daniele Belotti, eletto in Parlamento con il maggior numero di preferenze registrato in Italia; Sofia Goggia e Michela Moioli, regine olimpiche dello sci; Baldassare Agnelli, industriale, cavaliere del lavoro. Bergamo si aspetta da loro ancora tanto bene.
Don Davide, un pover'uomo da medaglia d'oro
Don Davide Rota, lei vive al Patronato, è qua tutto il giorno insieme agli ultimi della città, anche a tante di queste persone dalla pelle nera che non hanno casa e non hanno lavoro. Qualcuno non ha più nemmeno la speranza. Perché lo fa?
«Lo faccio per due ragioni principali, la prima riguarda la mia esperienza in Bolivia. Dovevo mettere in piedi la parrocchia di una zona di Munaypata (La Paz) dove fino ad allora non c’era niente. Io ero stato curato a Loreto, a Bergamo, fino al 1981, poi avevo coronato il mio sogno: andare in missione. Il vescovo Oggioni mi destinò alla Bolivia. Arrivai carico di buona volontà, di voglia di aiutare, di darmi da fare. E capii che quella mia buona volontà non serviva a niente».
Perché?
«Perché io organizzai questa parrocchia, ma nessuno mi seguiva, nessuno veniva in chiesa. Le mie opere, le mie parole, non servivano a nulla, si perdevano nel vento. Io avevo un’immagine, come dire, un po’ romantica della missione, pensavo che i poveri mi stessero aspettando per farsi aiutare... Arrivavo io, prete cattolico, e distribuivo parole, impegno, aiuto, accettato e benvoluto. Ma non è andata così, quello è stato il momento più critico della mia vita».
Una crisi durata ben otto anni.
«Sì, sono stati tanti e pesanti. Non ero pronto. Nelle parrocchie di Bergamo, il parroco, il curato vengono sostenuti in gran parte dagli stessi parrocchiani, è come se fosse una famiglia che ti sta accanto, non sei solo. Invece là io mi sentivo completamente solo, senza nessuno che mi sostenesse. Allora ho provato che cosa significhi essere poveri, poveri sul serio».
Quando si è poveri sul serio?
«Quando ti senti un nulla. Quando ti senti profondamente solo. Quando pensi che non vali niente. Ecco, allora sei davvero povero. Non sei povero in realtà quando ti mancano i beni materiali, no. La vera povertà, la vera miseria è quell’altra. E aggiungo una cosa che può sembrare sciocca o infondata: quel senso di povertà è un regalo che mi ha fatto il Signore».
Ci spieghi meglio.
«Ho cominciato a pensare che non ero un salvatore, uno che veniva in Bolivia dal Paese ricco e che avrebbe elargito verità e benessere. Ma che ero un povero in mezzo ai poveri. Quegli anni mi hanno cambiato, hanno cambiato la mia prospettiva rispetto al mondo. Oggi io sono così, anche qui al Patronato, io sono un povero, io li capisco questi ragazzi che ci sono qui, io mi sento uno di loro».
Alla fine ce l’ha fatta. Che cosa è successo?
«Sì, ne sono venuto fuori. La mia parrocchia aveva trentamila abitanti ed era divisa in diciannove comunità, la più lontana si trovava a quaranta chilometri, sulle Ande. Andavo là ogni quindici giorni; in quella chiesetta, dicevo la messa e, per anni, nessuno era venuto a sentire. Però io ho continuato ad andarci, regolarmente, non ho mai saltato una sola messa. Ne sono venuto fuori pregando tanto e facendo sempre il mio dovere, non tralasciando...
Per leggere l’articolo completo rimandiamo alle pagine 6 e 7 del BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 3 gennaio 2019. In versione digitale, qui.
Don Fausto, trent'anni tra gli ultimi della stazione
«Io sono un prete di strada. Da trent’anni quella è la mia missione, il mio punto di osservazione, il mio primo fronte. Il secondo è il carcere dove faccio il cappellano, anche lì da trent’anni. Non è il carcere il punto più basso del disagio umano: il punto più basso è la strada, la stazione».
In che senso, don Fausto?
«Sono lì che vanno a finire tante persone che escono dal carcere. C’è un rapporto diretto tra la strada e il carcere e tra il carcere e la strada».
Chi sono?
«Soprattutto bergamaschi o italiani caduti in disgrazia a causa di una dipendenza, alcolizzati e tossicomani. Hanno cercato di liberarsi dalle loro schiavitù ma non ce l’hanno fatta. E si ritrovano tutti al capolinea».
La stazione.
«Sì, la stazione di Bergamo. Alla fine per loro la famiglia è chiusa, nella società non riescono a stare, il carcere l’hanno sperimentato più volte. Non resta loro che la strada».
E che cosa fanno lì?
«Vivono nella ricerca spasmodica delle sostanze, la più diffusa delle quali è l’alcol. Qualcuno non sarà d’accordo, ma io credo nella cronicità».
E voi cosa potete fare?
«Offrire loro un pasto, un tè caldo, una coperta. Poi a Sorisole abbiamo creato un reparto di degenza con otto posti».
A che scopo?
«Chi vive sulla strada si ammala e muore più in fretta. Basta una bronchite, una polmonite, una cirrosi. L’ospedale si occupa dell’emergenza ma, risolta questa, dice loro: “La convalescenza devi farla a casa tua”. Abbiamo creato anche un ambulatorio con un infermiere fisso e alcuni medici volontari. Tre volte la settimana è aperto».
E quando la situazione si fa critica?
«Noi non siamo invadenti nei confronti di queste persone: se vogliono uscire dal nostro ospedaletto per bere l’ultimo bicchiere, rispettiamo la loro libertà. Che cosa vogliamo togliergli ancora? Infine, quando l’unico rimedio è la terapia del dolore, li accompagniamo all’hospice e li seguiamo fino all’ultimo giorno. Purtroppo alcuni li abbiamo visti morire per strada».
Una sconfitta...
«Quando uno di questi poveri non ha un luogo e si disperde nella città, resta completamente solo e rischia di fare ancora più male a se stesso. E diventa un problema per tutti perché spesso si rifugia nei parchi dove ci sono mamme e bambini. Noi cerchiamo di fare in modo che nella loro casa, che è la strada, abbiano un punto di cura e di ristoro».
Quante battaglie ha vinto con queste persone?
«Non ne ho vinta neanche una, ma non ne ho neppure perse. Sulla strada non si può vincere o pretendere un cambiamento: l’importante è che, in noi, i poveri possano trovare un po’ dell’accoglienza di una famiglia».
La stazione è un punto di scandalo per Bergamo.
«Essere accostati da persone sconosciute fa paura, ma la realtà non è particolarmente rischiosa o drammatica. Questi poveri non sfogano la loro violenza contro la città, non ci sono vandalismi. Dopo la sistemazione fatta dal Comune, il problema si riduce all’ultima pensilina. La rabbia dei poveri si sfoga piuttosto contro i nostri volontari. Siamo noi, la loro famiglia, a raccogliere lo sfogo del disagio, di giornate inutili e di vite allo sbando. Un grido di aiuto che si esprime anche...
Per leggere l’articolo completo rimandiamo alle pagine 6 e 7 del BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 3 gennaio 2019. In versione digitale, qui.
Sofia Goggia e Michela Moioli, due ori olimpici nella storia
Così diverse, eppure in grado di scatenare la stessa magia. Amiche geniali l’una dell’altra, campionesse. E bergamasche, che non fa mai male. Sofia Goggia e Michela Moioli ci hanno fatto svegliare presto e ci hanno ingabbiato nel loro incantesimo. Una manciata di secondi, un pizzico di minuti, poi hanno fermato il tempo a Pyeongchang. Il cielo sopra la Corea del Sud, a febbraio, s’è tinto d’azzurro e i petti di queste due ragazze si son colorati d’oro. Campionesse olimpiche, rispettivamente di discesa libera e di snowboard cross. In quel febbraio magico, è come se un incantesimo abbia legato per sempre Sofia e Michela. Da allora, verranno sempre ricordate in coppia. Perché entrambe hanno scritto la storia, entrambe hanno saputo andare oltre le sfighe, gli infortuni. Rialzarsi, sorridere al destino, sfidarlo, vincerlo. E vincere. La nostra (loro) terra le ha riaccolte a braccia aperte, come regine. La nostra (loro) terra le ha sempre coccolate e in questo 2018 le ha elette a simboli, icone. Eppure...
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Baldassare Agnelli, l'ultimo Cavaliere (del Lavoro)
«Ogni mattina li passo a salutare. Un abbraccio, due parole sull’Atalanta, un complimento. Cerco di mantenere un buon clima, e intanto guardo se i lavori procedono. Loro sanno che quando hanno bisogno possono venire a parlarmi tranquillamente. Li ascolto, e se posso li aiuto». In queste poche parole c’è tutta la filosofia, professionale e di vita, di Baldassare Agnelli, numero uno della Pentole Agnelli e, da quest’anno, Cavaliere del Lavoro. Sorriso placido e sguardo seminascosto dietro occhiali dalle lenti fumé, Agnelli non è uomo di tante parole. Lo è più il fratello, Paolo, un «politico nato». Baldassare no, preferisce fare. E ascoltare. È così che ha imparato tanto, sin da bambino. È così che ha preso in mano un’ottima azienda fondata nel 1907 dal nonno omonimo (anche a lui mancava una “erre” nel nome) in un piccolo impero che fattura 150 milioni di euro l’anno, di cui il quindici per cento circa dall’estero. L’onorificenza ricevuta dal Presidente della Repubblica lo ha reso felice, ma non commosso. «La cosa che mi ha fatto venire giù due lacrimuccie, piuttosto, è quando mi ha telefonato un mio vecchio direttore per farmi i complimenti - ha raccontato a BergamoPost - . E piangeva. Quando senti una persona con cui hai condiviso tante...
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Giovanni Valagussa, lo scopritore del Mantegna
Bergamo è una città ricca di tesori. Nascosti, per lo più. Perché i luoghi comuni la vogliono epicentro del fare, più che della cultura. Eppure nelle sue strade e nelle sue piazze conserva architetture e opere d’arte che tanti altri centri d’Italia si sognano. E nel 2018 Bergamo ha scoperto di avere un tesoro in più, invidiato da tutto il mondo: niente di meno che un Mantegna, un’opera bellissima, dal valore elevato (stimato in circa trenta milioni di euro, se proprio vogliamo essere venali) e che si pensava persa. L’autore di questa scoperta ha un nome e un cognome: Giovanni Valagussa, storico dell’arte, conservatore dell’Accademia Carrara. È stato lui, con un lavoro di analisi certosino e un’accuratezza critica invidiabile, a rendersi conto che quella tavola conservata da tempo immemore nei depositi della pinacoteca (era lì da oltre un secolo) e ritenuta poco più che un’opera di “contorno” era, in realtà, la Resurrezione di Cristo del grande artista rinascimentale, la metà mancante della Discesa al limbo con la quale, da qualche settimana, è stata unita nuovamente in quel...
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Daniele Belotti, il politico più votato d'Italia
A molti non piace. Non piacciono i suoi toni, il suo sarcasmo, il suo attivismo social, la sua (sana) ossessione per l’Atalanta. Eppure passano gli anni ma Daniele Belotti è sempre lì. In prima fila, spilletta ritraente Alberto da Giussano sul petto e battuta tagliente sulla punta della lingua. Oltre vent’anni di militanza leghista, del resto, non sono roba da poco. Soprattutto se vissuti sempre in trincea in una delle province in cui la Lega, storicamente, raccoglie i risultati migliori. Il suo stile popolare (ma non populista) porta molti a sottovalutarlo, ma Belotti è una vecchia volpe della politica, uno che ha saputo destreggiarsi tra trionfi, inchieste e cadute, che ha saputo cavalcare l’onda verde tanto con Bossi quanto con Salvini. E che nel 2018, dopo oltre due decenni di militanza, s’è preso la sua personale soddisfazione politica: per la prima volta candidato al Parlamento, Belotti è risultato il candidato in un collegio nominale che ha preso più preferenze in tutta Italia: ben 105 mila. «Sarei potuto andare a Roma già nel 1994 - ha raccontato proprio a BergamoPost nel...