La fusione

Giovanni Bazoli spiega quali sono stati gli errori di Ubi che hanno favorito Intesa

L'eminenza bianca del mondo creditizio italiano, presidente onorario di Ca' de Sass e fautore della nascita dell'istituto bergamasco-bresciano, in un'intervista a Repubblica ha parlato dell'operazione da poco conclusa. Dicendosi contento del risultato finale

Giovanni Bazoli spiega quali sono stati gli errori di Ubi che hanno favorito Intesa
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Negli ultimi cinque mesi è sempre stato nell'ombra, senza dire una parola. Eppure Giovanni Bazoli, eminenza bianca (più che grigia) del mondo bancario italiano, nella partita Intesa-Ubi non ricopriva certo una figura secondaria: presidente emerito di Intesa, è anche il grande artefice della nascita di Ubi Banca dall'unione del mondo creditizio bergamasco con quello bresciano. Sia Carlo Messina che Victor Massiah sono, sebbene in modi diversi, suoi "figliocci". Forse proprio per questo ha deciso di tacere, in attesa che i fatti facessero il loro corso. Dopo che l'Opas di Intesa s'è però conclusa con un successo incredibile (90,2 per cento delle adesioni) e l'acquisizione di Ubi è andata in porto, Bazoli è tornato a parlare in una lunga e interessante intervista rilasciata a Repubblica e pubblicata domenica 2 agosto.

Carlo Messina, numero uno di Intesa (a sinistra) e Giovanni Bazoli

Nelle sue dichiarazioni, rilasciate al collega Francesco Manacorda, Bazoli ammette quello che, in questi mesi, molti hanno pensato: l'operazione, sebbene non orchestrata da lui, va a chiudere un cerchio che lui stesso anni fa aveva aperto, rendendo Intesa Sanpaolo un colosso non più di dimensione prettamente nazionali, ma in grado di confrontarsi con il ben più ampio mercato creditizio e finanziario europeo e internazionale. Purtroppo, perché ciò potesse accadere, è stato necessario "cancellare" una realtà importante e solida come Ubi, resa tale anche grazie al suo lavoro. E nell'intervista, Bazoli sottolinea anche quelli che, a suo parere, sono stati gli errori di Ubi (sia di alcuni azionisti che del management) che hanno portato alla sua fine. E che confermano una visione della situazione che più parti, in queste settimane, hanno dato. Riportiamo di seguito i passaggi più salienti dell'intervista.

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Per lei, uomo di tante integrazioni bancarie, ma anche di mediazione per eccellenza, dev’essere stato comunque uno strappo.

«È vero, tutte le operazioni di integrazione da me promosse sono avvenute in modo consensuale. Ma questa volta, come hanno spiegato anche esponenti di Intesa nei loro incontri con gli azionisti di Ubi, l’offerta non poteva essere negoziata prima di essere lanciata».

E perché mai?

«Per quanto accaduto, circa un anno fa, nell’azionariato di Ubi. Un azionariato, sino a quel momento coeso, si era diviso. Dal patto di sindacato che aveva riunito i maggiori azionisti di Ubi, piccoli e grandi e di diverse provenienze territoriali, uscirono alcuni soci per dare vita a un nuovo patto di consultazione, il cosiddetto Car, in cui confluì il 18% del capitale».

Ma perché quella rottura ha cambiato le cose?

«Perché il Patto precedente – che continuò a esistere, ma con solo l’8% del capitale – rappresentava, come ho detto, una pluralità di soci in dialogo con le molteplici aggregazioni di azionisti storici, mentre il nuovo accordo aveva una natura diversa, essendo composto da pochi grandi azionisti con una soglia minima dell’1% del capitale. Per effetto di questa frattura che Intesa ha comprensibilmente sostenuto di non avere un interlocutore con cui trattare, che indiscutibilmente rappresentasse l’azionariato di Ubi. Da qui la scelta di lanciare un’operazione non concordata. E a me viene quasi da pensare che quello strappo possa aver propiziato l’offerta di Intesa».

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I soci di Ubi, vendendo a Intesa il 90% delle azioni, hanno smentito sonoramente il doppio rifiuto dell’offerta espresso dal Cda della loro banca. Come giudica il comportamento combattivo di Massiah in questa vicenda?

«Conosco la posizione psicologica in cui si è trovato, quella di chi viene colpito da una mossa che ritiene aggressiva e mentre legittimamente persegue progetti diversi. È accaduto anche a me. Ma credo che chi si trova in tale posizione debba sempre chiedersi se la sua reazione sia una difesa di tutti gli azionisti e non diventi, magari senza accorgersene, una semplice difesa dello status quo, compresa la governance in vigore in quel momento».

Quando lei parla di “un’idea vincente di banca”, è quella che possiamo ancora definire di finanza bianca o cattolica, che in fondo è il solco nel quale sono cresciuti entrambi i gruppi?

«No, tutto questo è superato, nel senso che molte delle istanze della finanza cattolica – a cominciare da quella per cui l’interesse della banca non si identificava solo con quello dei suoi azionisti e quindi tradizionalmente una parte degli utili veniva redistribuita in beneficenza – sono ormai state accettate in senso più generale. Esse contribuiscono infatti a definire il ruolo che una banca può e deve avere non solo per i propri stakeholders, ma per le comunità e i territori in cui opera. Lo chiedono ad esempio grandi investitori internazionali, come Blackrock, che riconoscono a Intesa Sanpaolo di essere uno dei campioni mondiali in questo senso, con una grande sensibilità e attenzione ai temi sociali e culturali».

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Perché alla fine promuove l’operazione di Intesa Sanpaolo?

«Non spetta a me approvare o “benedire” questa operazione cui non ho partecipato. Mi limito a osservare che essa è nell’interesse dell’Italia. Ho sempre sostenuto che la banca è un’impresa speciale, non solo perché deve tutelare il risparmio, come prescritto dalla Costituzione, ma perché deve contribuire allo sviluppo economico, sociale e civile delle comunità in cui opera. Intesa Sanpaolo è nelle condizioni migliori per continuare a svolgere questa missione. È importante sottolineare che la stessa Banca centrale europea vede in questa integrazione in ambito nazionale il primo passo verso un ruolo di Intesa Sanpaolo a livello continentale. Abbiamo bisogno di una banca italiana forte, fortissima, e questo riconoscimento da parte della vigilanza europea consente all’Italia di giocare una partita nel credito in posizione di primo piano; posizione che purtroppo in altri settori al nostro Paese non viene riconosciuta».

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Ubi stava lavorando per un terzo polo bancario.

«A mio avviso, Ubi ha perso la sua occasione d’oro nel 2015, quando per prima si è adeguata alla legge di riforma delle Popolari, trasformandosi in Spa. Allora avrebbe potuto essere il perno di un terzo polo bancario, mettendo a frutto i suoi vantaggi: l’area di insediamento, un azionariato coeso, un’ampia e fedele base di clientela. Invece rimanendo stand-alone, è diventata un ibrido: inutilmente grande in Italia, troppo piccola in Europa. Con un forte rischio di diventare presto preda di istituti stranieri. Per questo la proposta che Intesa Sanpaolo ha rivolto ai soci Ubi, e che questi alla fine hanno plebiscitariamente accettato, risulta la soluzione migliore».

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