Due anni dopo

Il racconto della tragica storia dietro la foto diventata simbolo del Covid a Bergamo

L'assessore Angeloni: «La sera del 18 marzo 2020 fu surreale. Ogni salma venne benedetta, tutti i guardiani del cimitero e i carabinieri le salutarono in silenzio»

Il racconto della tragica storia dietro la foto diventata simbolo del Covid a Bergamo
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di Paolo Aresi

«Sono passati soltanto due anni, ma a me sembra che ne siano trascorsi cinque. Mi sembra che sia passato tanto tempo, o forse è stato un periodo talmente forte e doloroso da porsi fuori dal tempo. Non so». Giacomo Angeloni è assessore a diversi settori della vita cittadina, compresi i Servizi cimiteriali. Anche per questa ragione quei giorni li ha vissuti in un modo ancora più intenso. Quella terribile sera dei camion militari che portavano via le salme dei bergamaschi, lui era lì, al cimitero.

La foto delle bare nella chiesa di Ognissanti nella prima del 2020 scattata allora dall'assessore Angeloni

Assessore, che cosa le è rimasto di quella esperienza, due anni dopo?

«Da quando è cominciato marzo, non faccio altro che pensare a quei momenti di due anni fa, ricordo tutto, ogni istante, anche perché in quelle sere, quando riuscivo a tornare a casa, scrivevo un piccolo diario».

La chiusura totale era cominciata dieci giorni prima, l’8 di marzo.

«Sì, noi in Comune cercavamo di monitorare la situazione e ci rendevamo conto che i morti erano moltissimi, assai di più di quanto dicevano le cifre ufficiali. Però avevamo persino paura a pensarlo, a dirlo. Ricordo che già il sabato 7 marzo mi chiamò Tatiana Debelli, che si occupava della comunicazione per le cliniche Humanitas Gavazzeni, mi disse: “Non riusciamo più a gestire i morti, non abbiamo più posti, le camere mortuarie non sono sufficienti”».

Nei primi giorni si fece fatica a prendere coscienza pienamente di quello che stava succedendo.

«Sì, perché era troppo esagerato, era qualcosa che usciva dai limiti della nostra esperienza, era qualcosa di mai accaduto prima. Il sabato 7 marzo fu anche il giorno in cui decidemmo la chiusura del cimitero, perché c’erano ancora tante vecchiette che non rinunciavano a portare il saluto, anche tutti i giorni, ai loro cari. Decidemmo che avremmo usato la camera mortuaria del camposanto per soccorrere quelle delle cliniche, portammo da sette a venti posti la capienza. In quei giorni aveva chiamato anche il direttore sanitario dell’Ats per dirmi che anche le sale mortuarie del Papa Giovanni erano al limite».

Si sperava che le morti diminuissero, che perlomeno si stabilizzassero.

«Sì, si sperava, ma la realtà ci diceva il contrario, improvvisamente dai quattro-cinque morti al giorno, la normalità cittadina, eravamo schizzati a trenta morti al giorno in città. Ricordo che un giorno arrivammo a contare ottanta morti. Sconvolgente. Il lunedì 9 marzo facemmo domanda all’Ats perché ci autorizzasse a utilizzare la chiesa del cimitero per raccogliere le bare».

Perché la chiesa del cimitero, perché non una palestra, per esempio?

«C’erano alcune ragioni. Restavamo al cimitero, e per di più in una chiesa, un luogo comunque sacro, di rispetto. E c’era un’altra motivazione, molto importante: la chiesa disponeva di aria condizionata. Era un marzo dalle temperature elevate, il rinfrescamento mediante l’aria condizionata ci garantiva dal punto di vista igienico-sanitario».

Le salme in eccedenza quindi vennero tutte portate al cimitero.

«Sì, ma all’inizio non ci rendemmo conto che nel giro di pochi giorni avremmo riempito anche la chiesa. Il problema era che il forno crematorio del nostro cimitero, pur funzionando a pieno ritmo, non era in grado di smaltire tutte quelle salme».

Ci fu una grande richiesta di cremazioni.

«Sì, un vero boom. Non ci sentivamo di dire di no alla domanda dei parenti, in una situazione del genere. Almeno quello. Probabilmente la grande richiesta di cremazioni (l’incremento delle domande fu dell’ottanta per cento) venne dettata anche dalla diceria secondo cui i cadaveri avrebbero potuto trasmettere il virus. Fu questa scelta a generare le difficoltà. Intanto avevamo cominciato a mettere le bare anche sull’altare e sui banchi, ma il 15 di marzo facemmo portare via anche i banchi per avere più spazio, li trasferimmo sotto il famedio, li proteggemmo con dei teli di plastica. I tredici guardiani del cimitero compirono un grande lavoro e forse nessuno lo ha mai detto. Come i dipendenti dell’ufficio anagrafe del Comune e come la Polizia locale. Nei primi giorni si faceva anche una tumulazione ogni mezz’ora».

Erano funerali molto tristi.

«Potevano partecipare al massimo cinque persone, ma in buona parte di questi riti funebri non partecipò nessuno perché anche i familiari erano malati oppure in quarantena. Sì, molto tristi».

In alcuni casi lei decise di fare una cosa molto particolare.

«Sì, feci delle riprese in diretta su WhatsApp, avevo in collegamento i familiari più stretti. Sono cose che a ricordarle si prova ancora dolore».

Per evitare l’ingorgo delle bare, i sindaci di Brescia e Milano firmarono un’ordinanza che bloccava le cremazioni e tutte le salme vennero sepolte nei campi dei cimiteri.

«È vero, ma il nostro sindaco decise che non era giusto. Sapevamo che molti familiari non avevano più visto il loro congiunto dopo che era stato portato via in ambulanza, e che non avrebbero nemmeno potuto partecipare al funerale. Il sindaco disse che acconsentire alla richiesta di cremazione fosse il minimo che si potesse fare. Voglio ricordare che per ogni morto venne espletata regolarmente ogni pratica burocratica e che questo fu possibile grazie all’impegno costante dei dipendenti dell’anagrafe; nessuno si ammalò e nessuno chiese di restare a casa. La responsabile del cimitero, Valentina Nembrini, trascorse notti insonni. Nessuno poteva entrare nel cimitero. Allora decisi di scattare fotografie del camposanto vuoto, con le bare che attendevano il trasporto, sono immagini toccanti».

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