Liberazione

25 Aprile a Bergamo: migliaia di persone in corteo. Il discorso del sindaco Gori

Partito alle 9.30 da Piazzale Marconi, migliaia di persone hanno percorso insieme le vie del centro fino a piazza Vittorio Veneto

25 Aprile a Bergamo: migliaia di persone in corteo. Il discorso del sindaco Gori
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Corone d'alloro, depositate sulle lapidi a memoria dei Caduti: per la Libertà, nei Campi di Concentramento, quelli della Divisione Legnano e dell'Esercito di Liberazione Italiano 1943-1945. Si è aperto così, alle 8.30 di questa mattina, il 25 Aprile bergamasco, giornata in cui si celebra l'anniversario della Liberazione d'Italia.

Una cerimonia istituzionale che nel cuore della mattinata si è concretizzata nel corteo: partito alle 9:30 da Piazzale Marconi, migliaia di persone hanno percorso insieme viale Papa Giovanni XXIII, via Camozzi, via Pignolo - dove ci si è fermati a commemorare la targa a memoria di Ferruccio Dell'Orto -, poi via Tasso per raggiungere infine piazza Vittorio Veneto.

A guidare la lunga marcia, tra cori partigiani, diverse istituzioni - tra cui il sindaco Giorgio Gori, Pasquale Gandolfi, Rosy Bindi, i rappresentanti dell'Anpi, Lara Magoni ed Enrico Facoetti - seguiti da tantissime persone, cittadini, anche famiglie con bambini. A chiudere il corteo Progetto Adriana, che ha buttato dei peluche nella fontana di Locatelli (vicino alla Funicolare): un simbolo a memoria delle morti di Cutro.

Piazza Vittorio Veneto, dopo la deposizione delle corone d'alloro, è stata la cornice dei discorsi istituzionali. Sul palco, oltre alle autorità cittadine, anche Lucia di Cola per Progetto Adriana - rete di cittadini, associazioni, studenti, collettivi e sindacasti antifascisti che prende il nome dalla partigiana bergamasca Adriana Locatelli - e Francesca, studentessa del Lussana di Bergamo nell'ambito del progetto "Testimoni di Resistenza".

Il discorso integrale del sindaco Gori

Di seguito, riportiamo le parole pronunciate in piazza Vittorio Veneto dal primo cittadino di Bergamo, Giorgio Gori. Autore di una gaffe: parlando della tragedia di Primavalle, infatti, il sindaco ha citato come vittime «i fratelli Maffei». In realtà, si tratta dei fratelli Mattei.

«Autorità, rappresentanti delle associazioni partigiane e d’arma, cari concittadini, buon 25 aprile! E buon 25aprile ad Anatolij Fedoruk, sindaco di Bucha, città ferita, città cara a Bergamo e ai bergamaschi.

Qualche giorno fa, nell’aula di palazzo Madama, il senatore del Partito Democratico Walter Verini è intervenuto per rendere omaggio ai fratelli Maffei – figli di un dirigente romano del Movimento sociale italiano, uccisi cinquant’anni fa a Primavalle nel rogo appiccato da un commando di militanti di Potere Operaio – e, con loro, a tutte le vittime della violenza politica che negli anni settanta e ottanta insanguinò l’Italia. Verini ha ricordato il presidente Pertini, il partigiano Sandro Pertini, che nel 1983 si recò al capezzale di un altro giovane di destra, Paolo Di Nella, morto dopo essere stato aggredito.

“In politica, ha detto Verini, ci dev’essere un avversario e anche aspra dev’essere la competizione, ma non devono esserci odio e violenza. Questa è l’essenza della democrazia, che sta inscritta nella Costituzione e che ci apprestiamo a celebrare il 25 aprile”. Parole semplici, che hanno però lasciato il segno.

Perché vi parlo dei fratelli Maffei e di Primavalle?

Negli anni scorsi, da questo palco, ho espresso più volte il rammarico per la difficoltà a coinvolgere nella celebrazione della Resistenza le forze politiche del centrodestra e i cittadini che si ritrovano nelle loro posizioni.

Questo 25 aprile, a differenza di quelli che l’hanno preceduto, vede al governo proprio i rappresentanti di quelle forze politiche. Forze che di frequente sottolineano la centralità, tra i propri valori, del sentimento patriottico. La patria. E una forte idea di patria – aldilà delle diverse estrazioni – accomuna i protagonisti della lotta partigiana, come si evince dalle lettere dei condannati a morte durante la Resistenza, che spesso si concludono con le parole “Muoio per la mia patria”.

Pareva quindi ragionevole attendersi che proprio il valore della patria potesse rappresentare il punto di convergenza, la chiave di una piena adesione al 25 aprile da parte di chi in questi anni ha faticato a ritrovarsi nei contenuti di questa celebrazione.

La vigilia del 25 aprile è stata invece caratterizzata da evidenti “sgrammaticature” – per usare un eufemismo - intorno alla memoria di ciò che è stato il fascismo, di cosa sia stata la Resistenza e del significato stesso della Costituzione, tanto più rilevanti in quanto provenienti da alti rappresentanti delle istituzioni.

Se l’eccidio delle Fosse Ardeatine viene raccontato come un massacro di “italiani in quanto italiani”, anziché come una strage di antifascisti, se l’XI compagnia del III battaglione Bozen attaccato a via Rasella viene descritto come una banda musicale, se si dice che nella Costituzione l’antifascismo non compare, c’è qualcosa che non torna. Qualcosa di importante.

Si allontana la memoria diretta degli eventi, scompaiono i suoi testimoni, e il rischio di travisamenti di questo tipo aumenta, con i pericoli che ne seguono. Ma un Paese senza memoria, ammoniva Pier Paolo Pasolini, è un paese senza storia.

Siamo pertanto di nuovo a chiederci come mai la Festa della Liberazione non sia ancora, come invece dovrebbe essere, un valore da tutti condiviso, patrimonio nazionale e comune. C’è, e va rimarcato, qualche segnale positivo. Ma osserviamo che questa data continua per molti ad essere “divisiva”. Da una parte la difficoltà a riconoscersi nel 25 aprile, o addirittura la tentazione di svilirlo, negandone l’importanza, dall’altra la tendenza a farne la propria festa esclusiva, o a travisarla in fenomeno militante. E lo stesso rispetto all’antifascismo: da una parte la difficoltà persino a pronunciare la parola, dall’altra la propensione ad usarla per delegittimare gli avversari del momento. In entrambi i casi, a mio avviso, travisando la natura pluralistica del movimento di Liberazione e tradendone almeno in parte l’eredità.

Io non credo che si debba cercare un compromesso tra queste posizioni. Anzi, lo escludo.

La tentazione di riscrivere la storia va combattuta con forza, così come il rischio contenuto nelle omissioni. Alla rimozione dell’ignominia rappresentata dal fascismo ci dobbiamo opporre, senza incertezze. Chi pensa di fare del negazionismo storico deve sapere che non rinunceremo a testimoniare tanto i crimini commessi dal fascismo quanto la rilevanza storica del movimento partigiano. La Resistenza è stato un grande evento storico. Nessun revisionismo riuscirà mai a negarlo. Quindi, per essere chiari: non permetteremo a nessuno di riscrivere la storia antifascista del nostro Paese.

E tuttavia, se quell’obiettivo di condivisione ci sta a cuore, e personalmente mi sta a cuore, un percorso va fatto. Un percorso logico, innanzitutto. Che parte da una domanda. Com’è possibile condividere e omaggiare la Repubblica e la Costituzione, onorarne gli anniversari, e non celebrare la Liberazione dal nazifascismo? È infatti proprio dalla festa in onore di chi è stato partigiano, dal seme interrato quel 25 aprile, che è cresciuto il resto dell’albero.

Il 2 giugno 1946 nasce il primo germoglio del seme gettato un anno prima: la Repubblica italiana. Il secondo frutto è la Costituzione, che marca con taglio netto la distanza dal regime che l’ha preceduta. Altro che “non c’è scritto antifascismo”! Già dal primo articolo la Costituzione chiarisce che l’Italia è una repubblica democratica, impiantata cioè nel campo opposto a quello delle dittature: una nazione dove verranno garantiti i diritti inviolabili dell’uomo e dove ciascuno avrà pari dignità sociale e davanti alla legge. Aldilà della norma transitoria, ogni singolo capitolo della Costituzione è scritto in diretto contrasto al fascismo! Com’è possibile quindi giurare sulla Costituzione, e non proclamarsi chiaramente, inequivocabilmente antifascisti?

Questa parola, “antifascismo”, venne sdoganata vent’anni fa dalle tesi di Fiuggi, in occasione del congresso che segnò il superamento dell’esperienza del Movimento Sociale Italiano. Cito testualmente: “E’ giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. Eppure si fa ancora fatica a dire “antifascismo”, anzi non lo si dice proprio, quasi non si volesse rinunciare a quello stesso residuo identitario del quale si viene accusati. Io credo che non vada bene, soprattutto per chi ora è al governo, guida il Paese ed è titolare dei nostri rapporti internazionali. Quel percorso cui accennavo va intrapreso e completato.

L’impressione, lo ha scritto molto bene Flavia Perina sulla Stampa, è che questa fatica non derivi da motivazioni ideologiche e tantomeno nostalgiche, ma dal portato biografico di molte persone, per la somma di esperienze individuali che poco hanno a che fare con il fascismo storico e molto con gli anni dell’antifascismo militante, con la categoria politica utilizzata negli anni ’70 e ’80 come giustificazione per una lunga teoria di episodi di intolleranza e di violenza politica, tra cui – da parte delle Brigate Rosse e di sigle terroristiche collegate - attentati e agguati contro esponenti di destra. Mi riferisco alle uccisioni di Sergio Ramelli, di Giuseppe Mazzola, di Graziano Giralucci, all’assalto incendiario al bar Angelo Azzurro di Torino. E ovviamente al rogo di Primavalle di cui parlavo all’inizio.

Superare questo portato biografico richiede indubbiamente uno sforzo, ma se lo ha compiuto vent’anni fa la destra che di quei fatti fu protagonista e a volte vittima, una destra che arrivò coraggiosamente a definire il fascismo “il male assoluto”, deve a mio avviso riuscirci la destra di oggi, che è al governo del Paese, soprattutto se incoraggiata – dall’altra parte - da un’esplicita condanna di quei fatti.

Ecco perché ho voluto iniziare con le parole del senatore Walter Verini, richiamando l’omaggio del presidente Pertini al capezzale di Paolo Di Nella. Perché penso che le cose possano cambiare, e che l’onestà intellettuale e umana contenuta nella commemorazione del rogo di Primavalle possa facilitare il prodursi di una svolta, dalla parte opposta, anche rispetto al significato del 25 aprile. Io davvero me lo auguro. Non per cedere ad un’altrui pretesa, ma per segnare l’inizio di una storia nuova e diversa, la storia di un’Italia che non ha più paura delle parole e dei fantasmi del passato.

A proposito del passato: col 25 aprile festeggiamo la ritrovata libertà. Ma mai come oggi dobbiamo decidere se limitarci a guardare all’indietro, nella necessaria e fondamentale memoria della guerra di Liberazione, o se guardare anche avanti, a ciò che ci attende come italiani e come europei.

Mai come in questo periodo la prevaricazione d’un totalitarismo bussa alle porte della nostra Unione europea. Oltre a celebrare chi ha restituito l’onore al nostro Paese, guardare in avanti significa avere il coraggio di domandarci, insieme, da dove possano provenire i veri e futuri pericoli per la libertà e per la democrazia che abbiamo faticosamente riconquistato, non solo in Italia ma nell’intero nostro Continente.

Ad appena duemila chilometri da qui, per la prima volta dopo quasi ottant’anni di pace europea, c’è un dittatore, accusato di crimini di guerra, che ha invaso un Paese libero e tenta di abbatterne il governo democraticamente eletto.

Si può dire che quello di Putin è un regime fascista? L’ambasciata russa insorge solo a sentirlo. Ma come ha scritto Goffredo Buccini sul Corriere della Sera: se hai due ruote, i pedali e un sellino è probabile che tu sia una bicicletta. Se avveleni o incarceri gli oppositori, sottometti la magistratura e l’economia, se ammazzi i giornalisti liberi, se neghi i diritti delle minoranze, se ridisegni le regole per perpetuarti al potere, se strappi i figli ai genitori cercando di «rieducarli» secondo la tua idea di nazione, se bombardi sistematicamente le popolazioni civili, se pratichi la tortura e lo stupro come strumento di sottomissione... beh, se fai tutto questo, è molto probabile che tu sia un dittatore, a te la scelta dell’aggettivo, fascista o neostalinista, per le vittime cambia poco.

All’invasione criminale voluta da quel dittatore gli ucraini stanno eroicamente resistendo: col nostro aiuto e per nostro conto. Combattono anche con le nostre armi? Sì, anche per evitare a noi di essere costretti a impugnarle domani.

Nell’occasione del 25 aprile celebriamo “un popolo in armi” contro l’oppressore, ha detto il presidente Mattarella. E tuttavia sappiamo che ben difficilmente quel popolo, il nostro, avrebbe potuto prevalere senza l’aiuto decisivo delle Forze Alleate, che nei cimiteri di guerra italiani lasciarono 150.000 morti in battaglia.

Armi e munizioni inviate all’Ucraina, insieme al sostegno finanziario e umanitario, hanno fin qui permesso di frenare l’occupazione russa. A chi chiede la sospensione degli aiuti militari rispondo come già lo scorso anno, citando l’Unità del 26 ottobre 1943, che scriveva: “E’ necessario reagire contro chi sostiene che per non scatenare il terrore tedesco in Italia è necessario non fare nulla. Del terrorismo tedesco è responsabile chi predica rassegnazione e passività”.

Ha scritto Ezio Mauro: “In tutti questi anni abbiamo celebrato il 25aprile come il giorno in cui, caduta la dittatura, è rinata la patria, abbiamo ritrovato lo Stato confiscato dal fascismo e l'Italia ha iniziato il suo cammino nella libertà, calpestata dall'occupazione nazista. Dal 24 febbraio dello scorso anno non basta più. L'irruzione della realtà ci interpella e ci obbliga a fare i conti con quanto sta accadendo in Ucraina, mettendolo in relazione con la primavera del 1945 e con noi stessi. Chi evita questo rendiconto imbàlsama il 25 aprile e lo consegna al museo della storia, tradendolo. Peggio ancora, lo devitalizza”.

“Se vogliamo essere fedeli ai nostri valori – è Liliana Segre che parla – dobbiamo sostenere il popolo ucraino che lotta per non soccombere all’invasore, per non perdere la propria libertà”.

E dunque il 25 aprile – cari amici, caro Anatolij - ci rammenta che resistere è un dovere, ieri come oggi, in qualunque circostanza la libertà sia in pericolo.

Viva l’Italia, viva la Resistenza, viva il 25 aprile!»

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