La "fase 2"

Ben 2.400 imprese bergamasche spingono per riaprire, ma il rischio è ancora altissimo

I medici suggeriscono test immunologici e tamponi per "selezionare" chi potrebbe tornare a lavorare, ma ci sono dubbi su tempi e risorse. Gli industriali chiedono di ripartire quanto prima

Ben 2.400 imprese bergamasche spingono per riaprire, ma il rischio è ancora altissimo
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di Andrea Rossetti

La chiamano "fase 2" (uno di quei modi di dire che insieme a "lockdown", "picco", "plateau" e così via questa emergenza ha purtroppo portato in auge e che per un bel po' non ci scrolleremo di dosso), ma in sostanza significa lento ritorno alla normalità. Sono bastati alcuni giorni di dati ufficiali (e sappiamo bene, ahinoi, che non è sinonimo di dati reali) positivi per far scalpitare un po' tutti. Dai villeggianti che dallo scorso fine settimana hanno deciso di regalarsi una vacanzina in montagna, cercando però di nascondere la loro presenza nelle seconde case di Val Seriana e Val Brembana come fossero topi in fuga dai gatti, fino ovviamente alle aziende.

Queste ultime sono, oggettivamente, le più legittimate a pensare al domani. Perché, al di là delle comprensibili e legittime polemiche delle ultime settimane che le indica come prime fautrici della non imposizione della zona rossa nella Bergamasca, alimentate dalle sciagurate e folli dichiarazioni del numero uno di Confindustria Lombardia Marco Bonometti («Perché tanti morti e contagi in Lombardia e nella Bergamasca? Qui c’è una presenza massiccia di animali e quindi c’è stata una movimentazione degli animali che ha favorito il contagio»), è anche vero che il perdurante stop delle attività può diventare una tragedia nella tragedia, con migliaia di persone che rischiano di perdere posto di lavoro e stipendio. Il tema, dunque, è quantomai pressante e importante. Anche se, numeri alla mano, sono tante le imprese che, nonostante le limitazioni imposte dai decreti del Governo, hanno continuato a lavorare in queste settimane o hanno comunque fatto di tutto per poterlo fare.

Precisamente, si parla di circa 2.400 imprese che hanno avanzato richiesta alla Prefettura per continuare la propria attività, o perché rientranti nei settori autorizzati dal Governo stesso (selezionati attraverso i codici Ateco) o perché, a parere dei titolari, operanti nella filiera di chi è autorizzato. Operano in deroga, spesso anche senza accordi con i sindacati, e attendono che le autorità competenti diano a loro l'ok o lo stop definitivo. Nella speranza che, nel frattempo, arrivi qualche indicazione sulla ripresa anche da Roma. Per questo Confindustria Bergamo e i sindacati locali stanno lavorando a una sorta di "manuale" che preveda una serie di regole da rispettare sui posti di lavoro.

E se da un lato Confindustria continua a respingere le accuse di pressioni per la non imposizione della zona rossa («Non abbiamo fatto nessuna pressione - ha detto al Corriere Bergamo Agostino Piccinali, vicepresidente degli industriali orobici -. Il video incriminato è del 28 febbraio, fino al 7 marzo fuori si brindava a spritz, mentre nelle fabbriche dal 24 si erano già messe in atto le norme comportamentali. Il presidente Scaglia l’ha già detto: con il senno del poi, quella comunicazione era sbagliata e ce ne scusiamo. La preoccupazione ci sta, ci sta anche la telefonata. Ma dove ci sono competenze precise, bisogna andare a cercare perché le decisioni non sono state prese»), dall'altro gli industriali non nascondono la necessità di riprendere quanto prima le loro attività. Il 6 aprile, la Federazione dei Medici lombardi ha scritto una lettera che è in parte accusa alle istituzioni, in parte proposta per ripartire: test rapido immunologico (che deve ancora essere validato, però) sulla popolazione e chi è sano torna a lavorare, chi invece risulta avere degli anticorpi va sottoposto al tampone per capire se è ancora positivo o no. Solo in caso di esito negativo potrà tornare al lavoro. Per fare questo, però, servono risorse, sia umane che economiche. E i dubbi sul fatto che ci siano, queste risorse, sono elevati. Senza un'operazione di questo tipo, però, il rischio di una seconda ondata di contagi è elevatissimo, soprattutto qui in Bergamasca, dove il Coronavirus ha colpito con una violenza inaudita e le imprese sono molte. Non possiamo permetterci altri errori, stiamo già pagando un prezzo altissimo.

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