Don Usubelli sul veliero di Open Arms

«I profughi in mare ci chiedevano aiuto e ringraziavano cantando canzoni italiane»

Il sacerdote bergamasco, nato a Selvino ma incardinato a Barcellona, ha partecipato a tre salvataggi nel Mediterraneo. La sua testimonianza

«I profughi in mare ci chiedevano aiuto e ringraziavano cantando canzoni italiane»
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di Matteo Rizzi

Da Selvino a Barcellona, da Barcellona al tratto di Mar Mediterraneo tra Lampedusa e Tunisi, sulla rotta degli scafisti che trasportano ogni anno migliaia di persone in cerca di una sorte migliore lontano dalle loro terre. Una missione per «dare testimonianza cristiana», come dice lui, di quello che avviene in quelle acque. Negli scorsi giorni a bordo del veliero Astral, appartenente all’ong Open Arms, c’era anche don Luigi Usubelli. Nato a Selvino, è stato curato a Boccaleone e in provincia di La Spezia, prima di iniziare le sue esperienze come guida di comunità cattoliche italiane all’estero, che lo hanno portato prima in Australia e poi a Barcellona, dove attualmente è incardinato. Nel mezzo, un’esperienza missionaria di cinque anni a Cuba.

Fin dall’inizio della sua esperienza pastorale ha sempre dedicato molti sforzi a tematiche di accoglienza a partire da quando, coadiutore a Boccaleone, si è occupato in modo particolare del campo nomadi, dove vivevano Rom e Sinti, e della comunità dei kosovari. E ora ha deciso di passare alcuni giorni, in cui gli impegni sacerdotali a Barcellona erano più radi, a bordo del veliero Astral, un’imbarcazione che attualmente ha compiuto già circa ottantacinque missioni per conto di Open Arms. Don Luigi ha partecipato, nello specifico, a tre operazioni “di riscatto”: il compito dell’equipaggio del veliero è quello di individuare scafi o imbarcazioni di migranti lungo la tratta di mare che porta a Lampedusa, avvicinarli, prestare primo sostegno e soprattutto allertare le autorità costiere per velocizzare le operazioni di recupero vero e proprio, che sarebbero impraticabili per il veliero a causa delle sue dimensioni e della sua capienza.

Cosa l’ha portata nel mezzo del Mar Mediterraneo?

«Il tema dei migranti è cruciale a Barcellona, perché come tante grandi città affronta questioni legate all’accoglienza quotidianamente. Noi stessi, membri della comunità italiana siamo immigrati, anche se veniamo trattati come immigrati “di Serie A”, a cui non ci si fa problemi a riconoscere ogni diritto. Ho deciso di partecipare alla missione per vari motivi: volevo innanzitutto vivere un’esperienza solidale, volevo dare una testimonianza concreta e dare un segno di presenza della Chiesa anche in quel contesto, in cui auspico interventi più strutturati».

Lei ha parlato di «testimonianza cristiana». Cosa intendeva?

«Per un rappresentante della Chiesa e come cristiano in generale agire secondo il Vangelo è una cosa auspicabile. E il Vangelo dice: «Ero straniero e mi avete accolto», e quindi mi è sembrato giusto vivere quest’esperienza. Io credo che nessuno di noi sia monolitico, e che una parte di noi ci dissuade dall’accoglienza, perché accogliere chi ci sembra diverso è una cosa che a volte può fare paura. E credo quindi che l’accoglienza inizi nel momento in cui decidiamo di lottare contro quella parte di noi, ed è quello che ho voluto testimoniare io attraverso questa azione esteriore, cioè il presenziare in un equipaggio che si occupa di prestare un aiuto concreto in questa situazione, è proprio questa lotta interiore».

Cosa le è rimasto impresso di queste operazioni?

«Ho visto dal vivo cose che solitamente vedo in televisione: era tutto molto simile, ma allo stesso completamente diverso. È l’impatto della realtà, lo scarto tra il reale e il virtuale. C’erano queste piccole imbarcazioni a cui noi ci avvicinavamo fino a venti metri, alcune facevano letteralmente acqua da tutte le parti. Le persone ci salutavano, chiedevano aiuto, ci ringraziavano. Alcune delle persone a bordo degli scafi, pensando che fossimo italiani, anche se in realtà l’imbarcazione è spagnola e l’unico italiano sul veliero ero io, cantavano canzoni italiane. Era il loro modo di dirci grazie e di salutare il nostro arrivo, primo segnale del fatto che la loro traversata disperata fosse quasi finita».

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