Una nuova piazza

Speri, il direttore delle Due Torri «Siamo un punto di riferimento»

Speri, il direttore delle Due Torri «Siamo un punto di riferimento»
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Roberto Speri, 44 anni, è originario di San Giorgio in Salici (Verona). Perito elettronico, si iscrive all’università ma dopo due anni lascia («Avevo la testa su altre cose») e apre un agriturismo con la famiglia, poi un bar a Verona: «Una bella sfida perché non avevo mai fatto il barista in vita mia». Il bar è diventato il punto di riferimento della zona per i giovani. L’esperienza è durata otto anni. Speri ha poi gestito locali per conto di altri, ma infine ha salutato tutti ed è stato assunto come magazziniere alla Bmw Italia. Nel frattempo organizzava, con alcuni amici, festival musicali a San Giorgio in Salici. Ne parlò anche Repubblica. Ci andarono ospiti anche i Casinò Royale, Daniele Silvestri e i Negrita. Il festival venne organizzato per quattro anni, con un successo crescente. «Poi, però, con la storia della quiete pubblica ci tagliarono le gambe. Dava più fastidio il rumore rispetto alla positività dell’organizzare qualcosa per i giovani». Il lavoro di magazziniere comunque durò solo cinque mesi. Era sicuro e ben pagato, «ma non ce la facevo più». Speri lesse su un giornale di un corso per webmaster finanziato dalla comunità europea e si iscrisse. L’iniziativa non partì per scarse adesioni. Contemporaneamente venne organizzato un corso per shopping center manager e cambiò tutto.

 

 

Come si fa a far decollare un centro commerciale?
«Non c’è una regola fissa. Dipende dal contesto, dall’ambiente in cui ci si trova, da chi si ha vicino. Nel nostro caso non è stato facile perché Stezzano non è sicuramente Curno e neppure Orio. Quando ha aperto, Le Due Torri era il terzo centro per metri quadri in provincia. C’era tanta concorrenza. E abbiamo aperto nel 2010, in un periodo di crisi che si è acuita nei due anni successivi».

Come avete fatto a cavarvela?
«Lavorando molto sul territorio, sulle associazioni, per far capire che potevamo essere un’alternativa».

Cioè?
«Fin dall’inizio abbiamo aperto le porte alle associazioni, organizzando eventi, con un occhio alla solidarietà e un altro a sport che non hanno grande visibilità come il nuoto, le moto, l’hockey. Non offrono i grandi numeri del calcio ma sono portati avanti da gente più partecipe e riconoscente. Un centro commerciale ha bisogno di quindicimila clienti al giorno, ma anche cento persone che parlano bene di te sono importanti. La colletta alimentare qui ha raccolto due furgoni e mezzo di cibo. Con l’associazione Eos abbiamo promosso diversi eventi e con il fondatore don Andrea Pedretti siamo andati a prendere il Grana nella zona di Mantova colpita dal terremoto. Ma importante è stato, naturalmente, l’inserimento di operatori prestigiosi come Esselunga e Mediaworld».

Come è finito a dirigere Le Due Torri?
«Io odiavo i centri commerciali. Ma ho avuto due fortune. La prima: avere incontrato una brava insegnante al corso di formazione che mi ha procurato uno stage al Verona Uno, un centro commerciale molto importante. Dopo sei mesi intensi, perché il direttore delegava tutto, mi hanno confermato. Seconda fortuna: al mio primo Consiglio d’amministrazione, il responsabile ha avuto un contrattempo e l’ho sostituito. Non sapevo neanche cosa dire, ma alla fine andò molto bene. In seguito mi hanno spostato in un centro più grande e infine mi hanno chiesto di aprire Stezzano».

 

 

Segue altri centri commerciali oltre a questo?
«Ne seguo due. Più c’è un’apertura in vista a Genova».

Quando un centro commerciale funziona?
«Quando la proprietà è contenta degli affitti che prende».

Poi?
«Quando cambiano poco le insegne».

E dal punto di vista della clientela?
«Quando non ci sono tante persone che si lamentano della stessa cosa. Le lamentele legate alla giornata, invece, ci stanno. Può capitare che un cliente dica che il bagno è sporco, può essere che sia entrato in un momento sfortunato. Il problema è quando sono in tanti a dirlo».

Quante persone entrano in media alle Due Torri?
«Circa quindicimila al giorno. In certi periodi si può arrivare a quarantamila. Il calcolo è presto fatto: abbiamo più di duemilacinquecento parcheggi e nei giorni intorno a Natale o Pasqua ci sono ore in cui trovare posto per l’auto è impossibile».

Non avete puntato sul numero di negozi...
«Ci sono centri che ne hanno molti di più, noi abbiamo puntato sulla qualità dei servizi. La nostra fortuna è di avere realizzato un centro commerciale in cui uno sta dentro al massimo un’ora, un’ora e mezza. Anche banalmente, se ci fate caso, ci sono due ingressi e un’uscita. Difficilmente uno si blocca nel traffico, è tutto molto veloce. In altre realtà capita invece di dover girare tanto. Da noi si viene, si fa la spesa o ci si reca nel negozio che serve, poi si esce. Cerchiamo di far risparmiare tempo alla gente».

Che è uno dei segreti del successo di Esselunga.
«Esatto. Si sa già dove sono le cose, non si è costretti a cercare nulla e si risparmia tempo. È lo stesso motivo per cui sta vincendo l’e-commerce. Il bisogno di velocità».

 

 

Lei ha puntato anche molto sul cibo. Funziona?
«È stata una scommessa perché abbiamo aperto subito tanti ristoranti: sono diventati basilari per il centro commerciale. I ristoranti hanno una vita a sé, un’affluenza diversa da quella classica dello shopping. Siamo stati trasversali nella scelta; da subito abbiamo avuto un buon pubblico nella pausa pranzo, una clientela fatta di operai o di chi lavora negli uffici. Fra i ristoranti si è creato un bel clima di competizione. Uno qui con poco mangia bene. È uno dei settori del centro commerciale per il quale abbiamo più richiesta».

Avete anche la clinica.
«Altra bella scommessa, nata a un pranzo con il direttore generale degli ospedali di Ponte e Zingonia, Francesco Galli. Stavamo dicendo per scherzo che non si è mai vista una clinica in un centro commerciale. Io gli ho detto che noi avevamo dei locali che non potevano avere una destinazione commerciale perché nascosti dietro a un corridoio e lui ha risposto che per loro sarebbero stati l’ideale! E aveva ragione, visto che sta andando alla grande».

Voi siete stati aiutati molto dalla superstrada, che però ora arriva fino a Orio.
«Si, ma noi stiamo ancora aspettando lo spostamento del casello autostradale».

Oriocenter raddoppia...
«Anche noi ci allarghiamo. Completiamo un piano».

Lei investe molto in promozione?
«Non tanto in termini economici, quanto in termini di tempo. Cerchiamo di risultare abbastanza originali. Alcune cose si devono fare per forza, Pasqua, Carnevale, la Festa della donna... Ma siamo stati tra i primi a fare gli instore, con Emma e il suo firma copie. Fino a quel momento questi incontri si tenevano all’interno di Mediaworld, in spazi angusti; qui da noi nel 2010 abbiamo cominciato a montare un palco apposito per l’intervista con il pubblico in uno spazio ampio del centro commerciale. Andando avanti ci serviva più sicurezza perciò più personale... Adesso quando facciamo gli instore abbiamo una struttura in grado di affrontare cinque-seimila persone. Con Alvaro Soler e Benji e Fede i numeri erano impressionanti».

 

 

Questi sono gli instore?
«Si, gli artisti vengono e firmano le copie, non cantano, ma rispondono a delle domande. È un incontro con i fan».

È tornato a quando organizzava concerti. Lei è stato anche gestore di bar, e infatti ha dato spazio alla ristorazione.
Ride. «È vero, sì. Ma è una questione di relazioni con le persone, con il pubblico. Le dirò di più: da due o tre anni mi sono reso conto che con le associazioni noi abbiamo degli obblighi. Il centro commerciale non può essere soltanto “Tu vieni e spendi e, per cortesia, quando hai speso vai via”. Da noi passano centinaia di migliaia di persone: abbiamo il dovere di proporre anche la riflessione, la sensibilizzazione su temi importanti. Abbiamo iniziato con un evento per i disabili; poi abbiamo interpretato la festa di San Valentino come un’occasione per riflettere sulla violenza contro le donne (abbiamo vinto anche un premio). E poi c’è la questione degli instore: avevano grande successo, pubblicavamo le foto sui social, su facebook, ma nelle fotografie c’erano tanti minorenni; allora abbiamo deciso che i ragazzi dovevano presentarsi con una delega da parte dei genitori».

Partecipano lo stesso?
«Sì, vengono accompagnati dai genitori o con la delega. Noi le verifichiamo, se uno arriva qui e non ha la delega nessun problema, la porta a casa la firma e ce la spedisce, noi chiamiamo il genitore per conferma ovviamente, e gli spediamo la foto».

Vi spaventa il raddoppio di Oriocenter?
«No, perché sicuramente nel primo periodo ci sarà la curiosità e loro incrementeranno la clientela. Ma credo che noi non perderemo troppi visitatori e anche se scendessimo di mezzo milione di clienti, possiamo resistere. Credo che invece siano loro a doversi preoccupare, perché raddoppiare il centro commerciale dovrebbe significare anche raddoppiare la clientela. E portare a casa altri dieci o quindici milioni di visitatori non è proprio uno scherzo!».

 

 

Ogni domenica proponete qualche iniziativa. Chi le pensa?
«Io tra la domenica e il lunedì. Questo è un po’ l’animo di quando organizzavo feste».

Dove vuole andare con Le Due Torri?
«Io penso che il nostro sia un centro che ha già trovato la sua dimensione».

Un centro commerciale secondo lei ha quindi anche una responsabilità sociale?
«Si, lo sottolineo. Io stesso, da cliente, osserverei anche questo aspetto. Vede, già nel 2010 e 2011, quando provavamo i macchinari, dai condizionatori agli impianti di illuminazione al massimo della potenza, qualcuno veniva alla mia porta, bussava, chiedeva se per caso a noi la corrente la fornissero gratis! Abbiamo imboccato un percorso virtuoso sui consumi certificando che l’edificio è costruito con tecnologie che consentono il risparmio energetico e con impatto ambientale basso; il primo voto è stato un “Good”. Da li in poi abbiamo ottenuto certificati di qualità. In Francia è una cosa normale, rientra nei bilanci delle società, e da noi sta arrivando».

Dovremo venire alle Due Torri per seguire qualche conferenza importante?
«Sarebbe bello. C’è stato un precedente che riguardava il lavoro, eravate anche voi partner, si chiamava “Bergamo lavora”».

Quanti posti di lavoro avete creato?
«Circa un migliaio. E assumiamo ancora. Abbiamo fatto anche qualche battaglia sulle domeniche di apertura. Alla domenica i cinema sono aperti, i bar pure, i ristoranti anche. I musei, i teatri. Tutti i luoghi di incontro è bene che siano aperti. E i centri commerciali sono diventati anche luoghi di incontro, purtroppo o per fortuna. Siamo la nuova piazza, un crocevia di umanità. E così è giusto che restiamo aperti anche alla domenica, rappresentiamo un servizio. Il primo dell’anno siamo chiusi, ma c’è gente che passa lo stesso, guarda, e poi se ne va via. Si sente orfana».

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