Riforma zoppa

Già tagliano i nastri, ma le nuove Case di comunità ancora non ci sono davvero

Non è ancora chiaro chi le guiderà, quali servizi garantiranno e come funzioneranno. La gente osserva, ma beato chi ci capisce qualcosa

Già tagliano i nastri, ma le nuove Case di comunità ancora non ci sono davvero
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di Wainer Preda

Beato chi ci capisce. Chi capisce perché a pandemia non ancora risolta e nel pieno di una crisi internazionale, Regione Lombardia ha deciso di complicare il sistema sanitario territoriale. E chi capisce cosa sono, e soprattutto come funzionano, le cosiddette nuove Case di Comunità.

Il motivo di tale tempismo è presto detto: i soldi del Pnrr che stanzia quattrini a valanga per la riforma sanitaria. Ovvero trasformare quel che c’era prima - che detto per inciso ci avevano propinato come “eccellenza” - in qualcosa di diverso, più vicino al territorio e ai cittadini.

Ebbene, da dove hanno cominciato? Dai rapporti fra Ats e Asst (cioè gli ospedali), di cui ai cittadini non importa un fico secco. La gente ragiona in maniera semplice. Se ho un malanno vado dal medico. Se è peggiore, in ospedale. Se invece ho un problema assistenziale vado ai Servizi sociali del Comune. Punto. Facile, lineare, immediato. Invece no. Fedeli al principio che le burocrazie generano altre burocrazie si è complicato tutto a dismisura. Tanto che i cittadini, già frastornati dalle contraddizioni dell’esperienza covid, non capiscono più un bel niente. Oggi, per dirla facile, le Ats sono gli enti che regolano la sanità sul territorio. Le Asst invece erogano i servizi sanitari ai cittadini. Con la riforma pensata dalla Regione, alcune competenze ora in mano all’Ats dovrebbero passare alle Asst. Fra queste la gestione delle fantomatiche Case di Comunità.

Nello specifico, sarebbero centri in cui i cittadini potranno trovare, almeno nelle intenzioni, risposte adeguate alle loro necessità. Siano sanitarie o sociosanitarie. Nelle Case di Comunità opereranno team multidisciplinari composti da medici di Medicina generale, pediatri, infermieri di comunità e di famiglia, specialisti, ma anche assistenti sociali. Ci saranno poliambulatori e servizi per le cure specializzate e l’assistenza ai malati cronici. Tutto concentrato. Con accesso da un Punto Unico sanitario e sociale. Ognuna di queste strutture dovrebbe coprire un bacino di circa cinquantamila persone. Un tantinello complicato da gestire. Soprattutto con copertura sette giorni su sette, 24 ore su 24.

Fin qui la teoria. Perché poi la pratica è ben altra cosa. Perché le Case di Comunità saranno di gestione Asst. Ma i medici di base, per esempio, rispondono al loro Ordine. Gli assistenti sociali, al Comune. Gli specialisti alla loro deontologia. E vaglielo a dire che ora comanderà il funzionario che, immaginiamo, non possa certo essere un “tuttologo” onnisciente. In più c’è la riforma del 2015. Quello che prevede il rapporto sussidiario fra strutture pubbliche e private. Tradotto, il pubblico può appaltare a strutture private la gestione dei servizi. E con le Case di Comunità la sanità privata, dicono in molti, ne uscirebbe notevolmente rafforzata.

Nel complesso, in tutta la Lombardia verranno istituite 218 Case della comunità, 71 Ospedali di comunità e 101 Centrali operative territoriali. Su terreni o immobili di proprietà del servizio socio-sanitario regionale, oppure degli enti locali nei territori di competenza delle otto Ats lombarde. In Bergamasca ci saranno 20 case, 6 ospedali e 12 centri operativi. Tre case nel capoluogo. Le restanti a Treviglio, Ponte San Pietro, Martinengo, Dalmine, Seriate, Lovere, Albino, Clusone, Sarnico, Grumello del Monte, Vilminore di Scalve, Calcinate, Gazzaniga, Alzano Lombardo, Zogno, Sant’Omobono e Villa d’Almè. I sei ospedali si troveranno a Ponte San Pietro, Martinengo, Treviglio, Calcinate, Gazzaniga e San Giovanni Bianco. Le centrali operative a Treviglio, Ponte San Pietro, Martinengo, Dalmine, Seriate, Clusone, Sarnico, Calcinate, Gazzaniga, Bergamo, Zogno e Villa d’Almè.

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