Le pressioni degli industriali per restare aperti e la salute di (almeno) cinquantamila operai bergamaschi
Il decreto "blocca Italia" in realtà consente a tantissime imprese di restare aperte, anche nel nostre territorio. Dove non sono mancate le spinte per evitare chiusure
di Andrea Rossetti
28 febbraio 2020, una settimana dopo l'individuazione del paziente 1 a Codogno: la Lombardia è entrata nell'incubo, ma ancora non lo sa davvero. La Bergamasca inizia a crescere nel numero dei contagi, ma ancora non sa che sta per vivere la sua ora più buia. La preoccupazione, al momento, è una sola: evitare contraccolpi economici. E Confindustria Bergamo realizza un video, intitolato Bergamo is running!, pensato per tranquillizzare i partner commerciali stranieri. Sì, c'è preoccupazione, ma qui (a Bergamo) va tutto bene, si lavora come sempre, dice il video.
24 marzo 2020: Bergamo e la sua provincia sono in ginocchio, sfiancate da un virus che ha colpito più duro che da qualsiasi altra parte. Gli ospedali sono allo stremo, i morti non si contano più, sono finite addirittura le bare. La gente ha paura, sta chiusa in casa. Ma non tutta: molta deve andare a lavorare. Il nuovo decreto firmato dal premier Conte la sera di domenica 22 marzo dovrebbe bloccare l'Italia, ma le tantissime eccezioni concesse permettono a tante aziende di restare aperte. E costringono gli operai e altri professionisti a recarsi ogni giorno sul posto di lavoro, con i rischi che ne conseguono. I sindacati sono sul piede di guerra, hanno indetto per il 25 marzo uno sciopero regionale di 8 ore in tutte le aziende che, a loro parere, non hanno produzioni essenziali e di pubblica utilità per le necessità del Paese. L'accusa al Governo è di aver ceduto alle pressioni di Confindustria, che ha tentato in ogni modo di "allargare" i paletti del decreto, riuscendoci.
Neanche un mese tra un evento e l'altro, eppure paiono due epoche diverse. Oggi c'è un prima e un dopo, e ci sarà per sempre. L'emergenza Coronavirus, la tragedia che stiamo vivendo, lascerà una cicatrice indelebile in tutti noi. Anche l'atteggiamento di Confindustria, ovviamente, è cambiato. Ma non l'obiettivo: lavorare, lavorare, lavorare. Non chiudere, a meno che non sia proprio impossibile. Anche qui, a Bergamo, nell'occhio del ciclone, nel cuore del dramma. E se il video del 28 febbraio lo si può anche perdonare (gli errori di comunicazione, in quei giorni, furono innumerevoli e da parte di più soggetti), diventa più difficile comprendere la ritrosia con cui, oggi, tanti imprenditori bergamaschi accettino di porre la salute pubblica innanzi all'economia.
Ovviamente è giusto che le tante aziende che si occupano di «produzioni essenziali e di pubblica utilità», come recita il decreto, proseguano. Ma la polemica nasce proprio dall'ormai famigerato "allegato 1" del decreto, quello che riporta i codici Ateco delle attività che possono continuare a lavorare. Dopo ore e ore di serrate trattative, è evidente che il Governo è dovuto scendere a patti con Confindustria, allargando le maglie il più possibile. Per intenderci: nella sola Bergamasca sono 1.851 le aziende con ricavi superiori a cinquecentomila euro che possono restare aperte. Ci lavorano circa cinquantamila persone (dati Leanus). E da questo calcolo sono escluse le aziende più piccole e quelle che, pur non rientranti nel decreto, possono fare richiesta alla Prefettura, la quale dovrà valutare. Insomma, di "bloccato" davvero c'è poco.
Sui social, la polemica è montata presto. Tanti dipendenti di diverse aziende del territorio si sono detti preoccupati, innanzitutto, ma anche arrabbiati. Matteo (nome di fantasia) è, ad esempio, operaio metalmeccanico di un'azienda medio-piccola dell'hinterland di Bergamo. Ci ha inviato il messaggio che il suo datore di lavoro ha scritto ad alcuni sottoposti il tardo pomeriggio di domenica 22 marzo, un paio di ore prima che Conte firmasse il nuovo decreto: «Tramite Confindustria abbiamo avuto in anteprima la bozza del decreto - si legge -. Dopo una lunga battaglia posso dire che siamo riusciti a inserire la nostra categoria di azienda tra quelle che possono lavorare. Appena arriva la firma ve lo comunico in modo ufficiale, così domani tutti al lavoro». Matteo e i suoi colleghi del reparto produttivo si sono opposti e, nonostante le pressioni, sono riusciti a restare a casa. L'azienda, con il personale messosi in malattia o in ferie, è rimasta chiusa (per ora). E non è l'unico caso di azienda a essere stata costretta alla chiusura più che ad averla scelta, come ha confermato Eliana Como della Fiom-Cgil a Il Fatto Quotidiano: «Le chiusure sono state imposte dalle proteste, dalla crescita dell’assenteismo e dal crollo degli ordinativi».
«In una fase così delicata occorre cercare la condivisione. Come imprese e come lavoratori dobbiamo seguire scrupolosamente le regole che ci vengono impartite», ha commentato la situazione Stefano Scaglia, presidente di Confindustria Bergamo, in un'intervista al Corriere Bergamo. «Prima dell’ultimo decreto una quota significativa di aziende, più della metà, aveva comunque già deciso di sospendere o ridurre fortemente le attività - ha continuato Scaglia -. Per questa ragione la scorsa settimana soltanto il 28 per cento dei dipendenti delle imprese a noi associate si recava al lavoro, in aziende attrezzate secondo tutte le prescrizioni di sicurezza concordate con l’Ats e le associazioni sindacali». E lo speriamo bene, verrebbe da aggiungere. Il tema, nel caso di specie, è che queste aziende restino aperte. Ed è inutile negare che delle pressioni da parte degli industriali ci siano state. Sia a livello nazionale, sia locale: sono stati diversi gli imprenditori che non hanno particolarmente apprezzato le posizioni del sindaco Giorgio Gori degli ultimi giorni, quando chiedeva a gran voce la chiusura di tutte le attività non strettamente necessarie. Così come è noto che il lato economico abbia pesato, e pure molto, nella non imposizione di una zona rossa nella bassa Val Seriana ormai circa due settimane fa.
Il problema è continuare a definire la situazione attuale come uno scontro tra sindacati e industriali: non è così. O meglio, non più. C'è di mezzo qualcosa di più grande, ovvero la salute di tutti. Ripetiamo: è indubbio che il danno economico della chiusura di molte aziende sarebbe (e sarà) enorme (le 1.851 aziende rimaste aperte incidono più o meno sul 3,2 per cento del Pil italiano, un'enormità), ma sull'altro piatto della bilancia c'è la vita di molte persone. Del singolo dipendente, dei suoi parenti, della sua famiglia. E questo non va mai dimenticato.